Le transizioni gemelle – green e digitale – aprono a nuove condizioni di contesto e crescita al Sud e possono rimettere il Mezzogiorno ai blocchi di partenza con alcuni vantaggi competitivi. Il direttore generale dell’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, Luca Bianchi: «L’Europa scommette sul mettere insieme le potenzialità dei differenti paesi. Facciamolo anche noi, ricomponendo la frattura tra Nord e Sud del Paese»
Direttore, il Rapporto 2022 prevede per il 2023 un Mezzogiorno in deciso rallentamento, con il Pil che potrebbe contrarsi fino a -0,4% contro il +2,9% di quest’anno. Il caro-energia persistente e l’inflazione a valori record peserebbero molto di più sulle famiglie e imprese meridionali, riallargando il divario di crescita tra Nord e Sud del Paese. A quali fattori è dovuta questa riacutizzazione?
La gelata conseguente allo shock inflazionistico, cagionato dalla guerra in Ucraina, ha interrotto un sentiero di ripresa eccezionale che aveva visto, nel 2021, il Sud agganciare il resto del Paese con una crescita del 5,9% addirittura superiore alla media dell’Ue-27 (+5,4%) grazie a turismo, export e costruzioni per lo più. I primi segni di cedimento si sono visti già quest’anno con la frenata di più di un punto percentuale rispetto al Nord (+2,9%, a fronte del +4,0%). Arretramento che, per il 2023, rischia di diventare recessione perché mentre per l’Italia si prevede una crescita del PIL dello 0.5%, in quasi tutto il Mezzogiorno si tornerà al segno meno (-0,4%). Un drastico calo dovuto in via prevalente al maggiore impatto dell’inflazione sul sistema delle imprese e delle famiglie, strutturalmente diversi al Sud.
La constatazione di fondo, infatti, è che famiglie e imprese al Sud sono – potremmo dire per “natura” e reddito – differenti e, di rimando, svantaggiate. È così?
Sì, nello specifico, la più diffusa presenza al Mezzogiorno di piccole e micro imprese, contraddistinte da costi di approvvigionamento energetico da sempre più onerosi, con ridotte economie di scala, cui si aggiungono i maggiori costi di trasporto, spiega il prezzo e i rischi più elevati cui sono esposte rispetto al sistema produttivo del Centro-Nord. Dall’altro lato, il potere d’acquisto delle famiglie viene via via sempre più eroso, a causa delle spese per le utenze domestiche rincarate e anche per effetto dell’incremento dei beni alimentari – incomprimibili – cresciuti intorno al 14%. Se si tiene conto che nel Sud vive circa un terzo del 20% delle famiglie più povere italiane il conto, drammatico, è presto fatto. La somma di questi due impatti asimmetrici basta da sola a spiegare la recessione, cui va ad aggiungersi il rallentamento previsto nel settore dell’edilizia, causato in parte dalla contrazione del mercato e, dall’altra, dalla riduzione del Superbonus.
Mezzo milione di nuovi poveri al Mezzogiorno che, da agosto 2023, non sarà sostenuto neanche dal Reddito di Cittadinanza. Svimez propone di superare la separazione finora in atto tra patto per il lavoro (per chi è teoricamente in grado di lavorare) e quello legato al patto per l’inclusione per chi non è occupabile. Il RdC proposto come se fosse una politica attiva del lavoro, e non di lotta alla povertà, ha dunque fallito?
I nuovi poveri si ipotizza saranno appunto 500mila in più al Mezzogiorno, 750mila in più in Italia. I dati confermano che il RdC ha salvato dalla povertà assoluta circa un milione di persone nella fase pandemica, a riprova del suo impatto necessario, ma al contempo confermano che non ha funzionato come politica di accesso al lavoro. Dei 660mila occupabili percettori di reddito, di cui quasi 500mila al Sud, appena 1 su 5 ha ricevuto un’offerta di lavoro. La priorità è dunque svuotare questo bacino di occupabili attraverso il rafforzamento di politiche attive, facendo funzionare il ricollocamento al lavoro e i centri l’impiego. Non è che eliminando il RdC si elimina il problema di chi è fuori del mercato del lavoro da un giorno all’altro. È indispensabile pertanto utilizzare in modo efficace le risorse che il PNRR destina a questa riforma di sistema, che prevede il rafforzamento e la riqualificazione dei Centri per l’Impiego, il programma Gol, il Fondo Nuove Competenze e l’estensione della collaborazione tra i sistemi pubblico e privato, senza approcci ideologici.
Altra dolorosa certezza: al Sud neanche l’occupazione garantisce la non povertà. Perché? E come si dovrebbe intervenire sulla qualità del lavoro a livello Paese?
L’indebolimento del mercato del lavoro viene da lontano, dalla crisi del 2008, perché non è stato mai risolto il nodo strutturale della bassa produttività delle imprese. Il progressivo peggioramento della qualità del lavoro, con la diffusione di lavori precari, ha portato ad una forte crescita dei lavoratori a basso reddito (working poor), a rischio povertà. Una questione nazionale che, al Sud, ha raggiunto livelli insostenibili a causa di salari unitari più bassi e ridotti tempi di lavoro. I working poor in Italia sono, nell’accezione dell’indagine EU_SILC circa 3 milioni, il 13% degli occupati, e rappresentano nel Mezzogiorno circa il 20% degli occupati locali, contro circa il 9% del Centro-Nord. Incidere sulla produttività del lavoro sarebbe la direzione giusta.
Netto il divario tra i tassi d’occupazione femminile del Mezzogiorno e del Centro-Nord. Quali sono le dimensioni del fenomeno e quali le cure urgenti?
È noto ormai che la crisi covid sia stata pagata molto di più dalle donne, tenuto conto che il settore dei servizi – ad alta quota di occupazione femminile – è stato tra i più penalizzati, tanto che ad oggi il tasso di occupazione femminile nel Mezzogiorno è molto lontano dalla media europea e il gap con il Centro-Nord, in termini di numero di occupati, si quantifica in 1,6 milioni. In Italia sono circa 4 milioni, di cui circa 1,8 milioni nel Mezzogiorno, le donne più o meno vicine al mercato del lavoro ma che non vengono impiegate a causa dell’indebolimento dell’offerta dei servizi pubblici, iniziata dal 2008. Bisogna pertanto restituire al Sud i cosiddetti servizi bianchi: ospedali, scuole, e diritti di cittadinanza, altrimenti l’inverno demografico sarà senza soluzione. Investire e riqualificare i servizi comporterebbe sia la risposta a un fabbisogno oggi insoddisfatto, sia a un aumento di offerta di lavoro a trazione femminile.
Tra i gap tra Nord e Sud rimangono preoccupanti quelli nella filiera dell’istruzione. In una Europa sempre più popolata da giovani senza istruzione e occupazione, l’Italia – secondo Eurostat – è fanalino di coda con il Sud assoluto protagonista in negativo (39%). In più, continua a crescere l’emigrazione di qualità. Come si viene fuori da questa condizione letargica?
Il riallineamento sta dentro il PNRR ed equivale agli investimenti sulle infrastrutture sociali. Negli ultimi vent’anni circa 1,2 milioni di giovani ha lasciato il Mezzogiorno. 1 su 4 è laureato. Nel solo 2020, 67mila giovani sono andati via e la quota di laureati è salita al 40%. Nel periodo 2002-2020, la perdita netta di giovani è stata di 770mila unità, quella di laureati di circa 250mila. Bisogna agire e presto per invertire la rotta. E farlo puntando sull’industria.
Già, come si legge nel Rapporto, è possibile «rimettere in gioco il Mezzogiorno», innanzitutto a partire dall’industria.
Il nostro è un messaggio chiaro di politica economica e di visione: insieme alle opportunità dell’agricoltura e del turismo, occorre frenare il processo di deindustrializzazione del Sud. Il Mezzogiorno non può prescindere da un rilancio del suo tessuto manifatturiero perché l’industria è il settore in grado di trasmettere processi di innovazione all’intera economia. Le transizioni gemelle – green e digitale – aprono a nuove condizioni di contesto e crescita al Sud e possono rimettere il Mezzogiorno ai blocchi di partenza con alcuni vantaggi competitivi. Al Sud, nel digitale, già oggi è possibile trovare forza lavoro qualificata, come dimostrato dai diversi investimenti ad opera di grandi aziende. In più le maggiori economie del Mezzogiorno risultano già specializzate in alcuni tra i più importanti settori ad alta tecnologia: Abruzzo e Sicilia nella fabbricazione di computer e prodotti elettronici, Abruzzo nella fabbricazione di autoveicoli e, in misura maggiore, Campania e Puglia nella fabbricazione di mezzi per il trasporto ferroviario e aereo. Sono queste le produzioni strategiche e ad alto valore aggiunto da cui partire per intercettare le opportunità di crescita delle transizioni future. Grandi vantaggi, poi, vengono dalle rinnovabili. Ma il Mezzogiorno non va visto solo come un hub energetico in cui localizzare investimenti, ma come luogo in cui valorizzare l’intera filiera energetica. Perché questo sia possibile, è necessario che gli interventi per le rinnovabili nel Sud siano orientati non solo a rendere l’area il luogo di installazione degli impianti di generazione di energia, ma anche uno dei centri di produzione del comparto in grado cioè di coinvolgere aziende del manifatturiero, dell’ingegneristica e dell’alta tecnologia. Ad oggi il vulnus del PNRR è l’assenza di un chiaro disegno di politica industriale che sia capace di sostenere e qualificare l’offerta attraverso Contratti di sviluppo, Zone Economiche Speciali, Fondi per l’internazionalizzazione, Accordi di Innovazione e, al contempo, promuovere e qualificare la domanda, ampliando i mercati mediante domanda pubblica (green e innovation public procurement). Non bastano i soli incentivi alle imprese già attive. Questa è manutenzione del presente, non visione del futuro già a un passo da noi.
Per il Sud tante risorse senza precedenti che necessitano di un coordinamento. Come si realizza?
I tanti fondi a disposizione, pur avendo lo stesso obiettivo, seguono logiche, metodi, attuazioni e certificazioni diverse che potrebbero creare un effetto imbuto, dando luogo a ridondanti e inutili sovrapposizioni. Non possiamo permettere che ciò accada. L’aver unificato in unico ministro le competenze per gli Affari Europei, il Sud e le Politiche di Coesione è stata una buona scelta che ci auguriamo dia i risultati sperati.
In un’Italia diseguale, l’autonomia differenziata renderebbe l’intero Paese più debole. Condivide questa prospettiva?
Se serve un coordinamento tra le politiche di sviluppo, a maggior ragione è necessaria maggiore coerenza per raggiungere gli obiettivi di coesione come richiesto dall’Europa. Concedere l’autonomia differenziata significherebbe procedere nella direzione opposta, frammentando le competenze in ambiti fondamentali come istruzione, energia, grandi infrastrutture, ingessando così i divari tra cittadini e territori e spaccando il Paese. Sarebbe inaccettabile. Non disuniamoci. Se l’Europa scommette sul mettere insieme le potenzialità dei differenti paesi, non vedo perché noi non dovremmo farlo.