SCUOLA, LEP NON SOLO QUANTITATIVI

Occorrerà ragionare su quali tipi di risorse educative è necessario rendere disponibili per contrastare le disuguaglianze e mettere tutti in grado di sviluppare appieno le proprie capacità, investendo di più la dove le disparità sono maggiori

 

Il Consiglio dei ministri ha di recente approvato il disegno di legge sull’autonomia differenziata che, entro fine anno, dovrebbe avere piena attuazione. Anche la scuola potrebbe rientrare nelle competenze da decentralizzare. Crede sarà così? Quali sono gli aspetti da non trascurare?

La possibilità è reale in quanto la autonomia sulla scuola (e la ricerca) è prevista tra le 23 materie elencate nell’articolo 117 comma 3 della Costituzione, anche se non è chiaro che cosa significhi esattamente in termini concreti. Lo si può dedurre dalle richieste in questo campo avanzate da Lombardia e Veneto. Riguarderebbe molti aspetti cruciali: organizzazione scolastica per quanto riguarda sia la distribuzione delle scuole sul territorio, sia l’attuazione ed eventuale integrazione dei curricula, reclutamento degli insegnanti, remunerazione degli stessi, collaborazione con le imprese. Non è ben chiaro se e come questa autonomia rafforzerebbe, o viceversa indebolirebbe, l’autonomia scolastica così come è definita dalla legge n. 59/1997 e dal DPR 275/1999. Queste due normative, infatti, già concedono alle singole scuole ampia autonomia organizzativa e didattica, per rispondere alle specificità dei contesti in cui operano, anche se purtroppo spesso è lasciata lettera morta o utilizzata “ai margini”, quando non fortemente scoraggiata.

È certamente opportuno che a livello locale ci si occupi della scuola, per individuarne le necessità e la loro dislocazione, perché solo a livello locale si conoscono le specificità dei contesti, dei loro bisogni e potenzialità. Ma vale per i comuni o le associazioni di comuni, più che per le regioni.

Inoltre, in una situazione in cui già esistono forti diseguaglianze territoriali nella offerta scolastica, con l’autonomia differenziata queste si cristallizzerebbero ulteriormente, ledendo il diritto costituzionale all’accesso paritario all’istruzione indipendentemente da dove si vive e dalla propria condizione sociale.

Da questo punto di vista, occorrerà discutere in profondità su che cosa debbano essere i LEP applicati ai servizi educativi per la prima infanzia e alla scuola. Se hanno il compito di garantire a tutti pari opportunità nell’apprendimento, non ci si può accontentare di indicatori esclusivamente quantitativi, come i tassi di copertura, che pure oggi non sono pienamente garantiti ovunque. Occorrerà ragionare su quali tipi di risorse educative è necessario rendere disponibili per contrastare diseguaglianze sociali e territoriali, per mettere tutti in grado di sviluppare appieno le proprie capacità, investendo di più là dove le disuguaglianze sono maggiori. Per questo è stato sbagliato lasciare agli enti locali o alle singole scuole l’iniziativa in risposta ai bandi del PNNR nel settore dell’istruzione (e probabilmente non solo), come se si trattasse di scelte opzionali, senza verificare preliminarmente e puntualmente (non solo genericamente per macro-aree) dove mancano alcune strutture e dove sarebbe più necessario integrare l’esistente.

Se l’istruzione rientrasse nel disegno dell’autonomia differenziata, si acuirebbe anche la fuga degli insegnanti migliori verso il Nord del Paese?

Non è detto. Dipende dal grado di discrezionalità che verrebbe concesso per reclutare su base locale, ponendo barriere a chi viene dall’esterno. Stipendi maggiorati possono essere utilizzati per incentivare “gli autoctoni” a percorrere la strada dell’insegnamento là dove attualmente c’è carenza di insegnanti. Inoltre, non è detto che stipendi più alti (ma anche costi della vita più alti) incentivino i “migliori”.

Possono incentivare chi vuole fuggire da situazioni difficili che richiedono maggiori investimenti di energie e capacità di innovazione didattica, o semplicemente non trova lavoro in loco. Il rischio vero è che dando il via ad una differenziazione salariale non sulla base dell’impegno richiesto e profuso, ma solo del luogo di insegnamento, ci sarà chi lavorerà moltissimo senza modifiche di stipendio e chi lavorerà il minimo necessario avendo una integrazione stipendiale. Succede già ora, anche per resistenze sindacali, che non si faccia differenza tra chi lavora tanto (e bene) e chi lavora poco. Con l’autonomia differenziata si potrà avere il paradosso di un riconoscimento salariale al contrario.

Durante la pandemia tutti erano concordi sulla necessità di rimettere l’istruzione al centro. Poi…cosa è successo?

Come per la sanità, si è tornati al punto di partenza e si è proseguito nei tagli al finanziamento della scuola in base a considerazioni demografiche, invece di cogliere l’occasione del calo demografico per utilizzarle per migliorare la scuola. Il PNRR è una grande opportunità, ma va colta in modo efficace, cosa che non sembra avvenga. Un esempio parzialmente positivo è l’aver introdotto il livello di copertura del 33% come LEP nel caso dei nidi, prevedendo anche un finanziamento adeguato per la loro gestione.

Ma si è lasciato che molti comuni del Sud non partecipassero ai bandi vuoi per disinteresse, vuoi per mancanza di tempo e/o delle professionalità necessarie per partecipare ai bandi, con il risultato che non sono stati allocati tutti i fondi destinati al Mezzogiorno e in molti comuni non sarà garantito neppure questo livello minimo.

Un esempio negativo sono i fondi per il contrasto alla dispersione scolastica.

Invece di individuare aree ad alta intensità di povertà educativa nelle quali creare reti collaborative tra scuole e tra queste e i possibili attori di una comunità educante, si è scelto di individuare singole scuole sulla base di alcuni (troppo) semplici indicatori di disagio, distribuendo poi i fondi a pioggia.

Furto di istruzione: secondo la SVIMEZ un bambino di Napoli che vive nel Mezzogiorno frequenta la scuola primaria per una media annua di 200 ore in meno rispetto al suo coetaneo che cresce nel centro-nord che coincide di fatto con un anno di scuola persa per il bambino del Sud. Proprio con l’emergenza sanitaria sono cresciute anche dispersione scolastica e povertà educativa, specie al Sud. Quali azioni sarebbero necessarie per contrastarle fin dalla prima infanzia?

Occorre ampliare l’offerta nidi e rendere i nidi economicamente accessibili, estendere il tempo pieno (di qualità) in tutta la scuola dell’infanzia e anche nelle scuole primaria e secondaria di secondo grado, non come semplice raddoppio delle ore di lezione, ma come arricchimento sia curriculare sia extracurriculare, in collaborazione con i soggetti locali – associazioni civiche, terzo settore, istituzioni culturali, servizi sociali – disponibili a cooperare in una comunità educante.