La Corte Costituzionale, con la sentenza, ha affrontato un tema cruciale nel diritto del lavoro italiano: la legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 1 e 2, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, relativo ai contratti di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti
Il fatto.
La questione era stata sollevata dalla sezione lavoro del Tribunale di Ravenna in un caso riguardante il licenziamento di un dipendente assunto a tempo indeterminato da parte di un’agenzia di somministrazione di lavoro. Il Tribunale aveva messo in discussione la compatibilità costituzionale della norma nella parte in cui prevede una tutela solo indennitaria per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, escludendo la possibilità di reintegra nel caso in cui il giudice accerti l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento. La Corte ha richiamato i principi costituzionali relativi alla tutela del lavoro, in particolare gli artt. 3, 4 e 35 della Costituzione, sottolineando che il diritto del lavoratore a non essere licenziato senza giustificato motivo rappresenta una garanzia fondamentale.
Nonostante il legislatore abbia il potere discrezionale di graduare le tutele in materia di licenziamenti, tale potere va esercitato nel rispetto dei principi di ragionevolezza ed eguaglianza. Nel merito, la Corte ha posto l’accento sull’importanza della reintegrazione quando il licenziamento per giustificato motivo oggettivo si basa su un fatto inesistente. La previsione di una tutela esclusivamente indennitaria si pone in contrasto con il principio di uguaglianza, creando una disparità ingiustificata tra i licenziamenti per motivo soggettivo e quelli per motivo oggettivo. Elemento centrale della pronuncia è la conferma dell’importanza del c.d. repêchage, ovvero l’obbligo del datore di lavoro di ricollocare il dipendente in altra posizione disponibile prima di procedere con il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. La Corte ha ribadito che l’accertamento dell’effettiva possibilità di ricollocamento del lavoratore è un punto chiave per valutare la legittimità del licenziamento. Nel caso di specie, il giudice aveva verificato che il datore di lavoro non aveva proposto al dipendente altre posizioni lavorative compatibili con le sue mansioni, rendendo il licenziamento privo di giustificato motivo oggettivo.
La mancanza di offerta di posizioni alternative comporta l’illegittimità del licenziamento.
Tuttavia, la normativa attuale, escludendo la tutela reintegratoria in questi casi, risulta in contrasto con i principi costituzionali in quanto il licenziamento basato su un “fatto materiale” inesistente o su un’assenza di ricollocamento non può essere sanato da un semplice indennizzo. La sentenza sottolinea che, prima di procedere al licenziamento per ragioni economiche o organizzative, il datore di lavoro ha l’obbligo di valutare tutte le possibili soluzioni di ricollocamento del dipendente, pena l’illegittimità del licenziamento stesso. L’art. 3 del d.lgs. n. 23/2015 è stato oggetto di critiche per la riduzione dell’area della tutela reintegratoria a favore di una mera tutela indennitaria.
La Corte, con questa pronuncia, ha riconosciuto che tale limitazione non può essere accettata. Il rimedio indennitario, in questi casi, non è ritenuto sufficiente a garantire la tutela dei diritti dei lavoratori, in quanto non offre un adeguato bilanciamento tra la libertà di impresa e la tutela del lavoro. In definitiva, in mancanza di un adeguato rispetto dell’obbligo di repêchage, la reintegrazione nel posto di lavoro rappresenta il rimedio più idoneo e in linea con i principi costituzionali.
Tale decisione si inserisce nel dibattito giuridico in continua evoluzione sulla tutela del lavoratore, fornendo un importante riferimento interpretativo per i giudizi futuri.