Sindrome del guardiano del faro: analisi critica/1

Cresce, specie tra i giovani, la paura del “mondo fuori” e, con esso, delle relazioni con l’altro. Un disagio adattivo sociale che riguarda tutti i paesi economicamente sviluppati

 

Nel 2002 su Il Messaggero era apparsa una notizia in apparenza non particolarmente interessante: la pubblicazione a cura della Marina Militare di un bando per venti guardiani di un faro, mestiere poco remunerato e anacronistico rispetto al moderno modo di vivere. Inaspettatamente le richieste erano state tantissime e le motivazioni addotte per giustificare tale scelta le più eterogenee. Mi aveva colpito il ricordo di alcuni del romanzo La gita al faro di Virginia Wolf, in cui il faro e la sua luce, al centro della narrazione, sono un punto fermo e attraggono lo sguardo e la memoria. In realtà traspariva in tutti la ricerca di una stabilità sociale e psicologica: dominare un faro voleva dire dominare la realtà e il proprio microambiente. Da questa deduzione era nata l’idea di definire Sindrome del guardiano del faro quei comportamenti caratterizzati dall’isolamento sociale volontario e dalla ricerca esasperata del dominio assoluto su un singolo aspetto della nostra vita, primi fra tutti i disturbi del comportamento alimentare.

Recentemente la definizione Sindrome del guardiano del faro è stata utilizzata dagli psicologi per descrivere, al termine del lockdown, la paura dell’incontro con la realtà esterna, per tante settimane rimasta confinata fuori dalle nostre case. Un po’ come farebbe un guardiano del faro non più abituato alle relazioni sociali. Lo psichiatra giapponese Saito nel 1998 descrisse dettagliatamente i comportamenti alternativi legati al rifiuto della società in cui si vive e per primo usò il termine Hikikomori, derivato da hiku (tirarsi indietro) e komoru (isolarsi) per identificare quei soggetti che deliberatamente si ritirano dalla vita sociale, rimanendo confinati nella propria abitazione/camera. Il fenomeno, molto diffuso in Giappone, si presenta come un disagio adattivo sociale che riguarda tutti i paesi economicamente sviluppati. La definizione che meglio lo rappresenta è ritiro sociale volontario cronico giovanile che consente di differenziarlo da quello degli anziani o di persone con disturbi psicotici gravi. La scelta di ritirarsi dalla vita sociale, cercando livelli estremi di isolamento, è stata interpretata come causata dalla grande pressione della società verso l’autorealizzazione e il successo personale. Gli studi condotti dal governo giapponese hanno identificato circa 1.5 milioni di casi, con una grandissima incidenza anche nella fascia di popolazione over 40. Questo dato è consequenziale al fatto che, sebbene l’Hikikomori insorga principalmente durante l’adolescenza, tende a cronicizzarsi.

In Europa si utilizza la sigla NEET (not in employment, education or training) per indicare i giovani non impegnati in attività lavorative o educative. Questi giovani non presentano necessariamente componenti psicologiche disadattative patologiche. I NEET sono stati espressamente citati per la prima volta nelle discussioni politiche europee dell’iniziativa faro Youth on the move di Europa 2020. La fascia di età era quella dei 15-24 anni, poi ampliata a 29 anni. A oggi i NEET sono il 14,2 % della popolazione di età compresa tra 15 e 29 anni. L’associazione Hikikomori Italia sottolinea come durante gli anni delle medie e delle superiori si può verificare il cosiddetto fattore precipitante, ovvero un evento chiave che dà il via al graduale allontanamento da amici e familiari.