Per il direttore generale Svimez, Luca Bianchi «è necessario continuare a mantenere un sentiero di investimenti pubblici e di riforme al Mezzogiorno, al fine di aumentare produttività e sviluppo anche una volta che il PNRR avrà esaurito la sua spinta propulsiva»
La prima grande iniziativa della nuova Commissione Europea sarà una Bussola della Competitività, fondata sui tre pilastri del rapporto Draghi: arginare il divario d’innovazione con Usa e Cina, approntare un piano comune per la decarbonizzazione e la competitività e, infine, aumentare la sicurezza, riducendo al contempo le dipendenze dall’estero. Quello di Draghi è un riferimento anche per il Rapporto 2024 della Svimez, in cui viene ribaltata diametralmente la prospettiva che vorrebbe, da tempo, il Sud fardello per il resto del Paese. La Svimez, invece, vede il Mezzogiorno come luogo funzionale alla strategia europea con la coesione come prima, vera riforma economica da realizzare anche grazie alle cospicue risorse del PNRR. Ma quanto spazio reale per la coesione c’è nelle politiche future dell’Europa?
Quest’anno abbiamo voluto incentrare il nostro Rapporto attorno a una domanda fondamentale: quale politica europea può essere utile al Mezzogiorno? Partendo dai validissimi documenti presentati da Enrico Letta e Mario Draghi, indispensabili per immaginare una nuova Ue alla luce delle trasformazioni storiche che stanno rivoluzionando il Pianeta, suggeriamo di aggiungere un pezzo determinante alle dimensione di competitività: la coesione. In sostanza, dice bene Draghi quando rimarca la necessità di politiche comuni europee per rafforzare i settori strategici, ma altrettanto importante è la dimensione spaziale, ovvero il luogo in cui concretamente si investe. L’obiettivo della coesione territoriale non può però essere lasciato soltanto alla politiche di coesione, ma deve orientare tutte le politiche europee, qualificandole. Gli ultimi vent’anni ci dimostrano infatti che l’Europa ha fatto segnare tassi di crescita sostenuti superiori alle altre economie mondiali solo quando ha ridotto le sue disuguaglianze interne. Emblematici, gli anni del post covid momento in cui il Sud era cresciuto come il Centro e il Nord, contrariamente ad altre crisi precedenti, per merito della crescita degli investimenti in opere pubbliche che ha determinato effetti espansivi più intensi al Sud. Dati alla mano, se si fa coesione si cresce di più. Anzi, si accelera come è successo per il Mezzogiorno.
Scendendo nel dettaglio dei numeri del Rapporto, il Sud cresce più del Centro-Nord Italia per il secondo anno consecutivo, con il Pil in aumento dello 0,9% nel 2024 contro lo 0,7% del resto del Paese, crescita che però si prefigura in calo una volta ultimata la fase di investimenti pubblici. Quando il PNRR uscirà di scena, che Mezzogiorno potremmo avere e in quale Italia?
Fino al 2026, secondo le nostre stime, la crescita e la coesione nel nostro Paese dipenderanno in maniera preponderante dal PNRR; nello specifico il Piano varrà ¾ della crescita del Mezzogiorno e metà di quella del Centro-Nord. Fondamentale pertanto spendere integralmente le risorse disponibili e farlo in modo efficace per avere, come risultante al completamento dei processi di investimento, un’Italia leggermente più coesa. Attenzione però alla forbice sociale che potrebbe nuovamente allargarsi negli anni a venire, una volta esaurita la spinta propulsiva del PNRR, creando nuovamente maggiori divari non solo tra classi, ma anche tra territori, generi e generazioni. Se non si imposta infatti una politica di investimento di lungo periodo, europea e nazionale, che prosegua il processo di rinnovamento nel nostro Paese, rischiamo seriamente di tornare alla tradizione che vuole il Mezzogiorno un peso a danno del Centro-Nord. Il Sud non è un vuoto a perdere, ha le energie per crescere anche più del resto del Paese, ma lo spazio temporale del PNRR non può di certo bastare a colmare divari territoriali storici.
Intanto, la Legge di Bilancio 2025 prevede una riduzione delle risorse destinate al Sud di circa 5,3 miliardi di euro nel triennio 2025-2027. Tra queste, spicca l’abrogazione della Decontribuzione Sud. Che effetti avrà?
La riduzione delle risorse è un segnale preoccupante perché prefigura la possibilità di un ritorno all’antico disinvestimento nel Sud. Si apre una stagione di grande incertezza che, dopo l’espansione post-covid, potrebbe equivalere a un’inversione di tendenza per la crescita del Mezzogiorno. Eliminare la decontribuzione, che ha contribuito negli ultimi anni ad ampliare l’impatto occupazionale della ripresa al Sud, determinerà un incremento del costo del lavoro al Sud di circa il 30%, con il serio pericolo di arrestare la crescita occupazionale. Essere arrivati a dicembre 2024 senza neanche aver aperto una trattativa con l’Europa per la ridefinizione dello strumento per compensare i maggiori costi per le imprese del Sud a causa di carenze infrastrutturali e più elevati costi energetici, è stato un grave errore che pagheranno imprese e lavoratori.
Anche in questa edizione sottolineate con forza quanto l’aumento dell’occupazione al Sud, ma più in generale nel Paese, non corrisponda a un reale riposizionamento del lavoro verso livelli qualitativi più alti. Anzi, i “nuovi” poveri continuano a essere i lavoratori, quest’anno 1,4 milioni al Mezzogiorno…siamo ancora indietro con la riqualificazione dei Centri per l’Impiego, nell’attuazione del programma Gol e di altri strumenti di politiche attive del lavoro?
La riduzione delle risorse per il Mezzogiorno rischia di fatto di far di nuovo aumentare precarietà, lavoro nero e grigio. I nuovi poveri continuano a essere i lavoratori sia per via dei bassi salari, sia per la durata breve dell’occupazione come accade nei casi di part-time involontario in cui il lavoratore non sceglie di lavorare meno ore, ma “accetta” l’unico lavoro disponibile. Rispetto a questa situazione, va segnalato che la grande riforma della formazione professionale e delle politiche attive del lavoro connesse anche al programma Gol ancora stenta a dare risultati per responsabilità delle Regioni.
Altro dato tristemente ricorrente è l’emigrazione giovanile qualificata, “vera emergenza del Paese”. In soli 10 anni sono andati all’estero quasi 140mila giovani laureati, mentre circa 200mila hanno scelto di trasferirsi al Centro-Nord. Un fenomeno che ha una duplice conseguenza: il Sud non solo si svuota, ma manca delle generazioni di ricambio. Guardando al futuro cosa è legittimo aspettarsi? La soluzione potrebbe venire dall’immigrazione, dall’accoglienza?
L’emigrazione rimane la grande questione irrisolta del Sud, anche se nel dibattito pubblico nazionale i termini sono rovesciati: a destare preoccupazione è e resta sempre il fenomeno dell’immigrazione, spesso enfatizzato e strumentalizzato. Questa distorsione porta i nostri concittadini a sovrastimare il fenomeno migratorio a livello numerico, accrescendo il circolo vizioso di paure e ansie legate al tema quando l’immigrazione potrebbe essere la soluzione sia al problema di crescente invecchiamento del Paese, sia, al contempo, a quello del calo delle nascite, del gelo demografico aggravato come dicevamo dalla precarietà crescente dell’occupazione. Posto che sono innanzitutto le debolezze del mercato del lavoro, in particolare l’aspetto dei bassi salari reali, un inevitabile “incentivo” ad andare via per i giovani più qualificati, nel nostro Rapporto abbiamo mostrato chiaramente che, per effetto di dinamiche demografiche, corriamo il rischio che in 3000 comuni italiani chiuda l’unica scuola elementare attualmente presente. Se si mettesse mano a una strategia intelligente di attrazione di stranieri, sia lato mercato del lavoro cercando le qualifiche che occorrono alle imprese spesso introvabili, sia come strumento per ringiovanire le aree interne, l’effetto sarebbe più che positivo perché si porrebbero le basi anche per aiutare le famiglie di quel territorio a restare perché molta dell’emigrazione soprattutto nelle aree interne dipende dalla assenza di servizi. Superiamo la retorica e mediatica contrapposizione immigrazione/emigrazione restando aperti. Al Sud, lo diciamo da anni, bisognerebbe puntare meno sul turismo e più sulla ricerca e l’innovazione. Bisognerebbe scegliere di orientare le risorse nei settori ad alta specializzazione. Al Sud esistono – penso all’agroalimentare, alla farmaceutica, all’aerospazio – comparti che possono offrire condizioni lavorative interessanti per i giovani qualificati che non sarebbero così costretti a lasciare il Paese per costruirsi un futuro. Anche le strategie per incentivare a restare dovrebbero mutare superando dinamiche di lavoro fossilizzate sui dogmi di epoche ormai lontane. È finito il tempo dell’economia legata solo alla valorizzazione dei sapori locali. Connessioni, smart working, south working, investimento tecnologico sono elementi indispensabili per rendere attraente il nostro Mezzogiorno restituendogli vitalità e futuro.
Veniamo all’industria. Dici automotive, dici altra crisi industriale per il Sud. ANFIA, l’Associazione Nazionale Associazione Nazionale della Filiera Industria Automobilistica, denuncia una riduzione di oltre 4,6 miliardi di euro il Fondo automotive nella prossima Legge di Bilancio. Un errore non sostenere la transizione del comparto con aiuti di Stato?
Innanzitutto una premessa: non c’è sviluppo per il Sud senza un’industria forte, consolidando quello che già di buono c’è e che, nonostante le ridotte dimensioni, non solo ha resistito alle lunghe crisi ma si è rivelato competitivo nelle sue specializzazioni. Oggi l’automotive non è più a Torino, ma nel Mezzogiorno con una produzione di quasi il 90% degli autoveicoli nazionali. Abbandonarlo a sé stesso, senza sostenerlo nella transizione, è un atto scellerato anche perché si rischia di disperdere non solo il capitale economico ma quello umano. Sarebbe una ecatombe.
Due anni fa aveva lanciato l’appello “non disuniamoci” in riferimento all’autonomia differenziata. Secondo lei cosa accadrà dopo lo stop della Consulta?
In merito alla legge Calderoli, la Corte Costituzionale ha lanciato un segnale forte sia dichiarandone l’incostituzionalità, sia sostanzialmente accogliendo tutte le obiezioni che abbiamo fatto in questi anni certificando quanto si tratti di un provvedimento iniquo, che disunisce e rende più fragile il Paese peggiorandone complessivamente i servizi. A questo punto non resta che fermarsi. Mutilata com’è dalla Corte costituzionale, la legge non consente di proseguire le trattative con le Regioni. Va preso atto che il modello proposto era sbagliato. Si potrebbe ripartire lavorando a un’attuazione ordinata e simmetrica di federalismo fiscale, basato sulla solidarietà, cosa che peraltro ha ribadito con chiarezza il cardinale Zuppi nostra nella nostra presentazione rimarcando che non c’è sviluppo senza solidarietà, attenzione agli ultimi, valorizzazione delle differenze e corresponsabilità nella promozione del bene comune.
Il Cardinale Zuppi ha scelto le sue parole chiave per gli anni a venire: sobrietà e serietà. Quali sono, a suo avviso invece, le parole sulle quali possiamo ri-edificare il nostro futuro come Paese?
Senz’altro competitività e coesione cui aggiungerei la solidarietà, quella sensibilità verso gli altri da sempre radicata nella cultura del nostro Paese tanto da essere finanche riconosciuta nella Costituzione italiana tramite l’articolo 2 ed essere ricompresa tra i diritti inviolabili dell’uomo.