La percentuale di adulti italiani – di età compresa tra i 25 e i 49 anni – attualmente a rischio di povertà, lo era già a 14 anni. Così la sociologa del lavoro Enrica Morlicchio: «Stiamo assistendo quasi inermi allo svuotamento della struttura sociale al Sud da cui parte la meglio gioventù, la stessa che sarebbe diventata – se al Mezzogiorno avesse le condizioni per restare e vivere con decoro – la futura classe dirigente»
Professoressa, in Italia secondo l’Istat quasi 5,7 milioni di persone in Italia sono in povertà assoluta; la Svimez rincalza riaffermando, nel suo ultimo Rapporto, che al Mezzogiorno si concentra il 60% dei 2,3 milioni di lavoratori poveri italiani (circa 1,4 milioni). Ma cosa sta succedendo nel nostro Paese, nonostante l’aumento dell’occupazione?
Riguardo al rapporto tra occupazione e povertà, stiamo ritornando ai livelli degli anni ’50 quando, nel nostro Paese, avere un’occupazione non metteva al riparo necessariamente dal rischio di povertà. Non era così per i braccianti del Mezzogiorno, ma non era così anche per molti operai di prima immigrazione.
Successivamente e per fortuna, si è registrato un periodo di sviluppo economico, con una dinamica salariale positiva accompagnata anche da un’espansione dei servizi di welfare e di programmi intensi di edilizia pubblica. Grazie a questi investimenti, la condizione delle famiglie dei lavoratori – in particolare mi riferisco alle famiglie dei lavoratori dipendenti che oggi hanno un’incidenza della povertà assoluta che è del 16% – era notevolmente migliorata.
Oggi rischiamo invece di fare passi indietro a causa, soprattutto, di una dinamica salariale negativa. L’Italia è uno dei pochi Paesi dell’Eurozona, infatti, in cui i salari non sono affatto cresciuti, perdendo al contempo potere in termini reali a seguito anche di una sconfitta storica, quella del Referendum sulla scala mobile. Un’altra delle ragioni per cui il lavoro non protegge dalla povertà è la polarizzazione tra famiglie ricche di lavoro e famiglie povere, in senso assoluto ma anche povere di lavoro, in quanto si tratta spesso di soggetti con basso titolo di studio, per cui altrettanto bassi sono i tassi di occupazione femminile, in cui quindi forte è lo squilibrio nel bilancio familiare tra entrate e uscite. Ai “working poor”, cioè ai lavoratori regolari che vivono in famiglie povere, inoltre bisogna aggiungere i quasi tre milioni di lavoratori irregolari che vanno a irrobustire quella che l’Istat definisce “economia non osservata”, cresciuta ulteriormente tra il 2021 e 2022.
Altro dato tristemente ricorrente nel Rapporto è l’emigrazione giovanile qualificata, “vera emergenza del Paese”. In soli 10 anni sono andati all’estero quasi 140mila giovani laureati, mentre circa 200mila hanno scelto di trasferirsi al Centro-Nord. Un fenomeno che ha una duplice conseguenza: il Sud non solo si svuota, ma manca delle generazioni di ricambio. Guardando al futuro, la soluzione potrebbe venire dall’immigrazione?
Nella valutazione dei flussi migratori, va tenuto conto soprattutto dei saldi, ovvero della differenza tra chi esce e chi rientra nel nostro Paese. Il problema in Italia è che i saldi migratori sono stabilmente negativi, il che significa che – oltre a rinunciare alle migliori intelligenze – non attraiamo giovani, specie al Mezzogiorno.
L’immigrazione potrebbe essere una soluzione valida, ovviamente regolamentata nella maniera adeguata, puntando soprattutto sull’interesse che molti giovani provenienti dall’Africa subsahariana dimostrano verso il nostro Paese ma che, ahimè, al momento non accogliamo, né garantiamo loro condizioni di inclusione. Un duplice errore e spreco, se si considera che la loro giovane età – e di rimando l’alto tasso di fertilità – sarebbe anche fondamentale per compensare il calo delle nascite arginando così il declino demografico che sta oscurando il futuro del nostro Paese.
Proseguirà anche la “desertificazione” universitaria del Sud anche a causa del taglio di 702 milioni di euro in tre anni che colpirà gli atenei e la ricerca. Come si inverte questa tendenza di progressivo impoverimento?
Più che desertificazione, direi che senz’altro calerà il numero di laureati e di diplomati in Italia, un’autentica sciagura visto che abbiamo già dei tassi di laureati e di diplomati tra i più bassi in Europa. I tagli determineranno infatti la chiusura di alcuni atenei medio-piccoli.
I tagli previsti non riguardano la spesa corrente, attribuita annualmente mediante il Fondo di finanziamento ordinario (FFO) destinato alla copertura delle spese per il personale e il funzionamento, ma anche le spese in conto capitale, per investimenti, ammodernamento degli edifici e dei laboratori, case e mense per gli studenti, voci cui un Paese come la Cina, ad esempio, ha destinato fondi enormi. Le decurtazioni colpiscono anche la formazione artistica e musicale. Due anni fa il violinista Giubboni diplomatosi in un conservatorio del Sud ha vinto il prestigioso premio Paganini, ma per perfezionarsi è dovuto andare all’estero.
Tornando alla povertà, è una condizione ineluttabile per alcuni? Chi ne è responsabile, chi ne ha la colpa e, soprattutto, continua nel nostro Paese a trasmettersi di generazione in generazione?
Quello della trasmissione intergenerazionale è senza dubbio uno degli aspetti più problematici della povertà italiana. Un numero su tutti per dare la misura della gravità del fenomeno: la percentuale di adulti – di età compresa tra i 25 e i 49 anni – attualmente a rischio di povertà, lo era già a 14 anni, una percentuale sensibilmente superiore a quella registrata in Germania, la Francia e seppure di poco, nella stessa Spagna.
In più, oggi la povertà viene sempre più vista come una colpa a causa della narrazione sociale che vuole il povero ignavo, passivo e in attesa di una qualche forma di sussidio, quando la realtà è altra, come racconta la cronaca. Oggi condizioni di povertà possono spingere ad accettare anche lavori pagati 3 euro l’ora in fabbriche che non garantiscono alcuna condizione di sicurezza.
Ma la povertà cui stiamo assistendo quasi inermi è soprattutto morale, con uno svuotamento della struttura sociale al Sud da cui parte la meglio gioventù, la stessa che sarebbe diventata – se al Mezzogiorno avesse le condizioni per restare e vivere con decoro – la futura classe dirigente del Sud.
Nel suo ultimo libro “Prima agli italiani, Welfare, sciovinismo e risentimento” compare una nuova distinzione: quella tra poveri meritevoli e non meritevoli.
Un tempo si era poveri meritevoli o meno in funzione della disponibilità a lavorare; oggi a questo requisito se ne somma un altro basato invece su caratteri identitari (essere o meno nato in Italia, l’avere o meno la cittadinanza, etc.). L’idea un tempo era che la disoccupazione dipendesse dalla singola persona e non dalle condizioni esterne. Se la nostra politica fosse meno miope, capirebbe dunque l’enorme risorsa che ha alla voce immigrazione e che non impiega come dovrebbe a tutto svantaggio del clima e del benessere collettivo.