Per il presidente di Confindustria Salerno essere imprenditori vuol dire soprattutto avere il privilegio di mettersi in discussione ogni giorno, mossi da uno stimolo continuo all’innovazione e al cambiamento, ma anche avere una buona dose di pazienza nel tollerare un Paese che spesso non è alleato di chi produce ricchezza
Lei ha cominciato la sua storia imprenditoriale nel ‘79, ma fino a qualche anno fa riteneva ancora che la società civile fosse diffidente nei confronti degli imprenditori. Oggi la percezione è cambiata?
Purtroppo non del tutto. Spesso, ancora oggi, si guarda all’imprenditore con circospezione. Esiste e resiste una sorta di preconcetto“cattivista” su chi crea ricchezza. Bisogna riconoscere che, sotto l’ampia voce imprenditori, sono accomunati tanti diversi soggetti, alcuni – fortunatamente pochi – non propriamente rispondenti a profili al di sopra di ogni sospetto. Non tutti quelli che si definiscono imprenditori sono connotati, infatti, da un’autentica passione per il fare, dall’attenzione per il territorio in cui operano, cui sono fortemente legati, da una spinta illuminata che impone di prestare cura anche agli aspetti culturali del produrre. Di fatto, però, la ricchezza nel nostro Paese è prodotta priorita- riamente dagli imprenditori sani, da quanti investono un capitale, mettendolo a rischio, per trarne un profitto che sarà ridistribuito attra- verso la creazione di posti di lavoro, il consumo e l’imposizione fiscale, anche ad altri soggetti.Secondo le ultime stime di unioncamere, le aziende in Italia sono 6 milioni e 50.000, vale a dire un’impresa ogni 10 abitanti.
Come non si può dare giusta attenzione a questo mondo?
A ogni nuova finanziaria, la politica si scatena in una lotta durissima per limare ai margini i capitoli di spesa, senza mai gettare lo sguardo sulla altra parte della gestione economica di un Paese, sul “cosa e come fare” per creare le condizioni giuste perché aumentino le entrate, indispensabili per avere, tutti, servizi pubblici migliori. Ed è per questo che, come singoli e come sistema delle imprese, dobbiamo impegnarci perché alle aziende vada riconosciuto un ruolo sociale innegabile, perché è soprattutto grazie al loro potenziale che si crea occupazione e si costruisce il futuro economico del Paese.Andrebbe ricordato, e colgo l’occasione per farlo, che la battaglia da sostenere – come diceva Olof Palme «non è contro la ricchezza, ma contro la povertà».
Fin dai suoi primi passi in azienda ha scelto anche di impegnarsi nella rappresentanza. Che cos’è l’associazionismo per Andrea Prete, un valore, uno stile o parte oramai del suo lavoro?
Dopo 31 anni dediti all’associazionismo, il mio impegno potrebbe sembrare in effetti quasi un lavoro, seppur non retribuito. Ho avuto l’onore di ricoprire tutte le cariche associative più importanti a livello provinciale, bissando anche qualche esperienza (Prete è per la seconda volta presidente di Confindustria Salerno, la prima nel 2003, ndr) perché credo nei valori propri dell’associazionismo e della rappresentanza. Mi sono avvicinato nel 1986 a Confindustria per avere l’opportunità di confrontarmi con persone che avessero problemi analoghi ai miei, indipendentemente dal settore merceologico in cui operavano, con imprenditori che quotidianamente affrontavano questioni, talvolta complesse, legate alla conduzione di un’azienda. Tanti, nel tempo, sono diventati amici e non solo colleghi con cui ho fatto un pezzo di strada, condividendo ansie, certo, ma anche visioni e prospettive.
E Confindustria Salerno com’è oggi? Qual è il suo ruolo?
Nonostante la crisi dei corpi intermedi, sono convinto che Confindustria Salerno conservi ancora intatto il suo valore di primo interlocutore del sistema produttivo ed economico locale, capace di sostenere servizi e progetti che ne favoriscano la crescita e promuovendone le istanze, in modo forte, presso chi governa i territori e nel confronto con il mondo sindacale, riuscendo spesso a incidere nelle scelte decisive. Al contrario, provia- mo a immaginare cosa accadrebbe se non ci fosse Confindustria: senza un riferimento certo, le imprese sarebbero alla mercé di consulenti e di interlocutori guidati da opposti interessi. Una babele, insomma.
Vero è che anche il mestiere dell’imprenditore si è decisamente complicato negli ultimi anni. Quali sono le urgenze delle imprese dal suo osservatorio?
Per semplicità, proviamo a divider le nostre imprese in tre grandi filoni: quelle che esportano, quelle che lavorano nel mercato domestico e quelle che hanno il pubblico come cliente finale. Tre macro gruppi diversi con altrettanto diverse esigenze. Chi esporta sa che lo fa secondo regole diverse dai propri concorrenti, regole che spesso lo mettono in svantaggio. Come ovviare? Non sono i dazi di certo la contromisura giusta, ma chi è al governo deve impegnarsi al massimo per rendere la vita delle imprese più facile, lavorando alla sburocratizzazione e a livelli di tas- sazione maggiormente equilibrati, che diano spazio alla crescita. Stesso dicasi per chi opera solo in Italia. Anche per queste imprese sarebbe di vitale importanza consolidare la riduzione del cuneo fiscal e contributivo sul costo del lavoro. Chi opera con il pubblico, poi, paga anche l’immobilismo che ingessa il proprio Paese. A queste imprese vengono richieste puntualità e precisione per ogni adempimento, senza ricevere in cambio la stessa celerità nelle procedure, nei pagamenti. I tempi dell’impresa non sono opinabili come quelli del pubblico e le inadempienze formative hanno un costo preciso che ricade a carico della collettività intera. Aspettare i tempi della pubblica amministrazione equivale a ritardare investimenti, rinviare la crescita, differire l’occupazione. Stare fermi al palo costa posti di lavoro.
Sulle relazioni industriali cosa è necessario fare?
Davanti ad un mercato del lavoro vorticosamente mutato, tutti, nessuno escluso, devono adeguarsi rivedendo comportamenti e posizioni. Una certa condotta rituale, ripetitiva e standardizzata non è più possibile. La direzione di Marcia è quella di costruire relazioni industriali fondate sullo scambio tra salario e produttività. Più si cresce, più si guadagna.
Da imprenditore è mai stato tentato dalla sirena di mantenere in Italia le strutture indispensabili per spostare il resto della produzione verso Paesi low cost?
Mai. Chi è andato via, spesso è anche tornato e non solo per la garanzia di offrire al mercato un prodotto di elevata qualità, made in e nel rispetto di una produzione sostenibile. Esiste, come dicevo, una dimensione civile nella scelta di vita e di lavoro di un imprenditore che lo lega al territorio in cui opera.
È qui che vuole fare bene, non dove forse gli converrebbe di più.
Vizi e virtù della nostra industria.
Fare industria significa avere il privilegio di mettersi in discussion ogni giorno, mossi da uno stimolo continuo all’innovazione e al cambiamento, ma anche avere una buona dose di pazienza nel tollerare un Paese che spesso non è alleato dell’impresa. Quanto ai vizi, nel nostro mondo, oltre a qualcuno che tifa per la concorrenza sleale, c’è chi per esempio non ha capito che la successione aziendale può essere problematica e va gestita in tempo utile. Continuità di impresa significa questo, non solo passare il testimone ai propri eredi. E poi, in molti sono ancora quelli che preferiscono perdere da soli piuttosto che vincere insieme.
Come vede di qui a dieci anni la sua città? E il Paese?
Mi preoccupa lo smarrimento di certi valori. Sicuramente la crisi e il peggioramento delle condizioni di vita in generale hanno influito su questo processo involutivo di chiusura mentale. Si respira troppa pigrizia, diffidenza, intolleranza. Certi valori che anni di pace avevano reso sacri, oggi vacillano. È un pericolo culturale da non sottovalutare. Non possiamo lasciare campo all’aggressività, agli estremismi e ai richiami alla violenza ma ricostruire, tutti, un sentire comune più accorto e attento alla vita delle persone.