Un libro firmato da Angelo Bruscino, imprenditore della green economy, traccia i contorni del nostro strano Paese, da un lato ricco di eccellenze e belle speranze e, dall’altro, teatro permanente di grandi ipocrisie.
Dottor Bruscino, dopo alcune pubblicazioni tecniche incentrate prevalentemente sulla green economy, lei ha deciso di allargare il suo orizzonte di studio e provare a fare il suo personale punto sulla situazione economica che vive attualmente il nostro Paese con il libro “Quanto ci costa essere italiani. Diario della giovane impresa ai tempi della crisi”. Partiamo quindi dal titolo del suo ultimo scritto…qual è il prezzo che scontiamo per lavorare e vivere nel nostro Belpaese?
Il prezzo più alto è il tempo perso o comunque sprecato, siamo tutti vittime di quel domani che tutti sognano, raccontato e celebrano con mille promesse, senza mai impegnarsi sul serio per realizzarlo. Soprattutto lo Stato – nelle sue tante declinazioni, che vanno dalla Burocrazia, al Fisco, ai tempi della (in)Giustizia – ha segnato negli ultimi decenni una società ipertrofica nelle regole e nei doveri e molto, molto povera di diritti.
In troppi, specie i ragazzi della mia e delle nuove generazioni, stanno morendo nelle loro aspettative di “frattempo”, quel tempo indefinito e tanto amato dai nostri politici, nel quale si attende il passaggio ad un Paese più civile e dove il merito e le buone pratiche superino gli antichi e pessimi vizi di cui troppo diamo spettacolo.
Quanta denuncia c’è nel suo libro?
Più che una denuncia, il mio libro cerca di creare il filo rosso che a partire da episodi giornalieri, impressioni, incontri, “disegna” i contorni di questo strano Paese ricco di eccellenze e magnifiche promesse, dove si consumano però anche grandi ipocrisie e bugie.
Lei è sia imprenditore (green economy, nda), sia giornalista: con quali lenti misura meglio la realtà, anche quella che racconta nel suo libro?
La migliore lente è quella del cuore, che supera i miei orizzonti professionali, perché in questi anni tanto complicati, la passione e la rabbia nel volere andare avanti, nell’avere la testa più dura dei tanti muri che ho trovato sul mio percorso ha contato molto più di ogni razionalità. Spesso la ragione ci spinge a fuggire, sono i sentimenti positivi invece a farci restare, sono il coraggio, ma anche la sofferenza, l’orgoglio, l’amore per quello che facciamo e la promessa di quello che potremmo fare a darci la migliore di tutte le letture possibili di questa Italia che, nonostante tutto, continua a raccontare al mondo il nostro essere comunque straordinari, imprenditori, professionisti, lavoratori, come dimostra il nostro Made in Italy, nelle tante produzioni industriali, nella moda, nell’agroalimentare, ma anche nella capacità di distinguerci come uomini e donne nel mondo quando ci troviamo in contesti favorevoli.
È però anche un “giovane”: se dovesse definire la sua generazione e il posto nel mondo che essa ha oggi quali sarebbero gli aggettivi più adatti secondo lei, quali le parole che meglio la descrivono?
Sfortunata, ma coraggiosa; in crisi, ma ricca di opportunità.
Un tempo in Italia c’erano tre cose fondamentali per far prosperare un’impresa: un mercato domestico per i propri prodotti; la possibilità di crescere grazie al credito bancario e un clima di fiducia e ottimismo specie verso l’impresa. Mancando queste condizioni perché un giovane dovrebbe scegliere la strada dell’imprenditoria? Quali risorse crede che oggi siano necessarie?
Quello dell’imprenditore o del self made man in Italia è ormai quasi un percorso obbligato. Di fronte a momenti come questo una delle poche opportunità rimaste è scommettere su se stessi; certo ci sarebbe bisogno di credito (soprattutto morale) e del reciproco coraggio della generazione precedente di sapersi mettere in gioco, di merito, di uno Stato meno patrigno e più onesto, come sarebbe importantissimo che non si chiedesse sempre e solo ai giovani di fare la propria parte, ma pretendere coraggio anche dai loro (nostri) padri: le scommesse generazionali si fanno in due, in Italia spesso manca l’altra parte.
Secondo lei nel nostro Paese esiste ancora o tornerà ad esistere l’imprenditorialità diffusa?
Credo di sì, penso che nel nostro caso la crisi ci abbia quasi obbligato verso questa direzione, ma sarà chiaramente possibile solo a fronte di cambiamenti. Uno dei tanti, ma fondamentale, è l’atteggiamento verso l’impresa che deve modificarsi sotto il profilo culturale; gli imprenditori devono considerarsi e comportarsi come i creatori di ricchezza diffusa e benessere quali sono e dovrebbero essere, lo Stato come facilitatore dei processi creativi e tutor delle regole e del merito quale non è.
Un’ultima domanda all’imprenditore, al giornalista e al cittadino campano: crede nella maggiore coscienza ambientale che pare finalmente farsi largo e trovare eco specie nei nostri territori?
Credo, fortissimamente credo, nei tanti momenti positivi che hanno costruito una coscienza collettiva che punta ad una crescita felice, nelle rispetto delle regole, ricca di innovazione tecnologica e scientifica, nell’ecologismo positivo che punta al futuro. Mi spaventa molto però l’atteggiamento altrettanto diffuso del “no” a prescindere, della protesta slegata dalla proposta. Il mondo è pieno di errori, ma anche di esempi e soluzioni straordinarie che magari sono partite da una grande emergenza, un disastro ambientale ad esempio. La Campania mai come oggi in questo ambito potrebbe essere per l’Italia e l’Europa, se davvero lo si volesse, un “Laboratorio di Speranza” per il futuro e il benessere di tutti.