There is a light that never goes out

THESMITHSPiccoli racconti dal Novecento: dopo il tributo al regista francese Truffaut, un omaggio a The Smiths! Nati nel 1982 nella periferia di Manchester dall’incontro tra Marr e Morrissey (rispettivamente chitarrista e cantante del gruppo). Immediatamente, “come un innamoramento”, i due trovano una sintonia estetica, culturale e produttiva che (seppur non li terrà uniti per molto tempo, in fondo il gruppo dopo appena cinque anni già si scioglie) saranno il nevralgico racconto di un’epoca e di un territorio davvero potente

Nell’esplosione plastic-onirica, post-modern, neo-barocca, iper-visual, reaganiana e tacheriana degli anni Ottanta, una dominante punk/post-punk/dark/new-wave (rigorosamente british) invade la scena musicale internazionale.

La Gran Bretagna, a principiar dalla nascita del punk del 1978, diviene portatrice “bella e perversa” (rubando un titolo a Pier Vittorio Tondelli che sugli anni Ottanta ha scritto il maggior affresco letterario “Un weekend postmoderno”) di una marea di band che hanno segnato in pieno diverse generazioni.

I nomi s’affollano e, alle volte, si confondono: dai Clash ai Joy Division, dai Siouxsie and the Banshees ai Cure, dagli Style Council agli Strangles ecc..

Tra questi gli alternative-rocker e new-romantic The Smiths! Nati nel 1982 nella periferia di Manchester dall’incontro tra Marr e Morrissey (rispettivamente chitarrista e cantante del gruppo). Immediatamente, “come un innamoramento”, i due trovano una sintonia estetica, culturale e produttiva che (seppur non li terrà uniti per molto tempo, in fondo il gruppo dopo appena cinque anni già si scioglie) saranno il nevralgico racconto di un’epoca e di un territorio davvero potente. Una eco ancor oggi centrale.

 

Tutto parte dalla scelta del nome (The Smiths, cognome anglosassone anonimo e diffuso) per contrastare le roboanti e stratificate nominazioni dei gruppi della scena degli anni Ottanta. E tutto poi continua nell’intensità di cinque straordinari album. Cinque lucidi racconti della contemporaneità. Cinque assalti sistemici (tra il poetico e il politico) veri diamanti nella storia della musica: “The Smiths” (1984), “Meat Is Murder” (1985), “The Queen Is Dead” (1986), “Strangeways, Here We Come” (1987), “Rank” (1988). In questi cinque dischi (cui faranno seguito raccolte, antologiche, bootleg e altro ancora) c’è davvero la storia di un mondo e di un sentire collettivo. Da un lato la raffinatezza dell’artwork delle copertine in bicromia (volti, scene, frames, modelli) dall’evidente estetica omoerotica. Dall’altro, le performance del gruppo inglese sempre molto d’impatto scenico seppur dentro una matrice di grande eleganza e raffinatezza.

 

Ascoltare The Smiths significa perdersi e ritrovarsi in un universo molteplice che attraversa tutta la matrice wildiana e l’estetica video di Derek Jarman. Significa piangere girando attorno ad una fontana lontano simbolo d’infanzia (“di come prendesti con te un bimbo e lo facesti invecchiare”) e impegnarsi per le lotte sociali. Emozionarsi ascoltando gli accordi di Jhonny Marr. Riconoscersi nei volti di quei ragazzini delle copertine dei dischi. Commuoversi per gli amori impossibili. Provare rabbia per tutti quei lavoratori in cassa integrazione. Sperare che si salvi la ragazza in coma. Sentirsi, guardandosi per ore allo specchio, un “charming man”. E nel fine settimana andare nelle discoteche (ma quelle rigorosamente “off”, “underground” e molto “alternative”) per “pogare” con dolcissima violenza nel sentire il panico che si espande per Londra (“Hang the Dj, hang the Dj, hang the Dj, Hang the Dj, hang the Dj, hang the Dj”).

Con The Smiths, gioiosamente, si scopre lo “splendore glamour” degli anni Ottanta, si ritrova tutta l’estetica di una tensione letteraria che trova sbocco necessario nella musica fino a diventare l’emblema di quegli anni e alla fine ci si immerge in una nostalgia tutta adolescenziale che alle volte già il solo ricordo è festa d’emozioni. Emozioni che esplodono, generose e naturali, anche ascoltando un solo loro frammento musicale che diviene la pura forza di chi (forse per la prima volta) capisce che il mondo può esser veramente “suo” perchè in improvvisa dolcezza “questa notte ha aperto i miei occhi”.