Sempre più imprese, specie se multinazionali, dicono addio al nostro Paese. Per attirare e trattenere i grandi gruppi mondiali è ormai prioritario che l’Italia pianifichi le sue strategie nei settori chiave, dall’energia alle grandi infrastrutture
Ieri era l’ex Pennitalia a Salerno, oggi Electrolux, domani chissà quale azienda – multinazionale o no, fa poca differenza – annuncerà di voler rinunciare a produrre in Italia o minaccerà di farlo se non troverà più le giuste convenienze.
È notizia di questi giorni infatti (andremo in macchina prima che possa dirsi risolta la questione, ndr) la proposta avanzata ai sindacati dai vertici Electrolux che, per non chiudere i 4 stabilimenti italiani in favore di una delocalizzazione delle attività in Polonia, hanno chiesto una riduzione del salario netto degli operai pari all’8%.
Non solo. Il colosso svedese del “bianco” intende anche congelare per un triennio gli incrementi del contratto collettivo nazionale di lavoro e gli scatti di anzianità, ridurre i premi aziendali, bloccare i pagamenti delle festività e tagliare del 50% pause e permessi sindacali.
Al di là dell’oramai datata constatazione dell’impossibilità del nostro Paese di utilizzare il costo del lavoro come leva – il rapporto, ad esempio, tra costo orario medio italiano (24 euro) e quello polacco (6,5) ci vede assolutamente fuori mercato – la vertenza Electrolux ci pone dinanzi a due realtà interdipendenti con cui misurarci: la prima riguarda gli altri fattori di competitività, la seconda il futuro del Paese.
In tempi di agguerrita e mondiale competizione, ad incidere sulla scelta del Paese dove localizzare la produzione non c’è il solo costo del lavoro ma almeno altri quattro aspetti da calcolare: il costo dell’energia, l’efficienza della PA, i tempi della giustizia, le infrastrutture.
Senza poi considerare l’elevata pressione fiscale che pesa sulle tasche degli imprenditori e dei lavoratori creando una vera e propria voragine tra il nostro e gli altri Paesi e che si traduce in minore competitività e quindi in una minore attrattività per gli investimenti, non solo dall’estero.
La domanda, retorica, da porsi è quindi: le imprese dicono addio all’Italia solo perché da noi un operaio costa troppo o perché il Paese tutto non risponde in maniera positiva a nessuno di questi parametri?
In più c’è un’altra peculiarità da considerare: le aziende appartenenti a gruppi multinazionali, oltre a dover fronteggiare la concorrenza esterna, acerrima per tutti, devono anche essere particolarmente attente a reggere il confronto con stabilimenti della stessa company localizzati in Paesi low-cost. La guerra per loro – come dire – è innanzitutto intestina. E non fa sconti.
La seconda riflessione da fare, pertanto, riguarda il futuro che vogliamo per il nostro Paese.
Come le imprese sullo scacchiere internazionale si battono per conquistarsi fette di mercato, così anche gli Stati dovrebbero gareggiare per offrire un ambiente favorevole, bene organizzato ed efficiente a chi crea occupazione.
Per questo chiediamo all’attuale Governo di restare in partita, accelerando i provvedimenti economici a favore delle imprese e dei lavoratori e impedendo che accada ancora che, dall’annuncio di un intervento normativo alla sua concreta attuazione, intercorrano distanze temporali siderali.
Un esempio per tutti: la Nuova Sabatini (che finanzia l’acquisto di nuovi macchinari, impianti e attrezzature per le PMI), è stata introdotta dall’art. 2 del Decreto del Fare, pubblicato in G.U. n. 194 il 20/8/ 2013. Il decreto che ne stabilisce requisiti, condizioni di accesso, misura massima del contributo e modalità di erogazione è del 27/11/ 2013, è stato pubblicato in G.U. il 24/1/2014 ma ad oggi manca ancora la circolare ministeriale che fissa i termini per la presentazione delle domande. Quanti mesi dovranno ancora attendere gli imprenditori?
Il mercato non aspetta di certo i tempi del Legislatore italiano che, in testa, dovrebbe avere una sola priorità: riformare, soprattutto in ambito “lavoro”, ma farlo guardando al futuro e non alle contingenze emergenziali del presente.
Domani potrebbe essere già troppo tardi se in Polonia, oltre a traslocare lo “stabilimento” Electrolux, si trasferirà anche quell’operaio che era in forze a Pordenone e che, perso il lavoro in Italia, porterà via con sé la sua esperienza professionale e la sua famiglia in cerca di un posto migliore dove vivere.
Non c’è più tempo da perdere se vogliamo che non sia il Paese tutto a chiudere i battenti.