Che uomo straordinario è stato Manlio Sgalambro (scomparso a 90 anni lo scorso 6 marzo). Straordinario per la scuderia densissima delle sue scritture (una saggistica rigorosamente Adelphiana), per la sua sicilianità vissuta con aristocratico orgoglio, per le sue adorazioni verso Nietzsche e Cioran, per l’amicizia produttiva con Franco Battiato (con cui dal 1994 creerà un magnifico sodalizio artistico), per la sua formazione parigina tra “biblioteche e bordelli” (apprendistato giovanile raccontato nel 2009 con il suo “Del delitto”), per la sua notorietà franco/ispanico/tedesca.
Per alcuni “semplicemente” straordinario perché ha saputo trasporre il concetto heiddeggeriano di “cura” (inteso come unico dato dell’esserci) in una delle più belle e romantiche canzoni del Novecento («Supererò le correnti gravitazionali/ lo spazio e la luce per non farti invecchiare;/ ti salverò da ogni malinconia./ Perché sei un essere speciale/ ed io avrò cura di te./ Io sì che avrò cura di te»).
Manlio Sgalambro è stato un vero filosofo nel senso che li ha vissuti fino in fondo i concetti che studiava. Tra slanci rigoristi e insegnamenti magistrali (decisamente destabilizzanti per la routine universitaria) ha portato avanti un’idea di nichilismo che si è sontuosamente mossa tra comunismo eretico, “anima razionale”, viaggi nella metafisica, rapidità del pensiero, moti segreti dell’anima, poteri taumaturgici della parola, riscoperte della consolazione. Il tutto quasi sempre attraverso una scrittura che sembra rimandare ai grandi trattatisti seicenteschi.
Un pensatore estremo, Sgalambro. Un battitore libero che scriveva per necessità sferzante e caustico desiderio, di certo non per scadenze accademico-concorsuali o per obblighi di contratti editoriali. Insomma un “filosofo solitario” che non ha mai dimenticato il comunque esserci come primo imperativo. Perché dentro il suo scrivere e raccontare di passioni e silenzi, dolenze e crudezze, risentimenti ed empietà…l’esserci si affacciava in continuazione. Un esserci che aveva la maschera allegra e triste delle canzoni: quelle scritte (non solo per il Magister Battiato, ma anche per Adriano Celentano, Carmen Consoli, Milva, Patti Pravo, Fiorella Mannoia) e quelle cantate (come non ricordare le sue performance nelle quali masticava la malinconia di “Moon River” e il catalogo libertario di “Me gustas tu”). Un esserci che nella sua soave quotidianità e aspra inquietudine giammai ha abbandonato questo filosofo dalle nichiliste fondamenta. Questo camminatore della notte. E sì, la notte. Quel luogo magnifico, ha scritto Sgalambro, dove «Ci si trascina per le vie e si parla tra sé. Il dialogo alligna di giorno e risuona dei suoi traffici ignobili. Di notte si monologa. Come dei re». Perché è di notte che dobbiamo cercare la verità dei nostri pensieri. Perché è di notte che i pensieri non esigono più la cautela del dialogo o la retorica dello scambio dialettico con “gli altri”. Perché è di notte che l’unica verità possibile nasce: ascoltarci. Ascoltarci senza rutilanti mediazioni, senza “amicali” interlocutori, senza poterci auto-assolvere con ipocriti “passerà” o “è soltanto un brutto periodo”, senza vigliacchi alibi dovuti a stress da professione, senza aspettare nulla (perché nulla più abbiamo da perdere).
Insomma, la notte ci rende liberi e ferocemente sinceri (almeno con noi stessi).