La mancata verifica da parte dell’Autorità giudiziaria, nel corso del processo, dell’indirizzo IP di provenienza del contenuto lesivo, non consente di procedere con il massimo grado di certezza possibile all’attribuzione della responsabilità per il reato
Tutti noi sappiamo quanto siano straordinarie le possibilità di diffusione e accesso di contenuti, video, immagini, e altro che caratterizzano il web. La disponibilità dei cosiddetti dispositivi intelligenti come smartphones e tablet ha incrementato gli scambi di informazioni in modo esponenziale. Milioni di notizie, opinioni, giudizi, di tutti i tipi e provenienti da ogni singolo uomo/donna “connesso”, si riversano ogni giorno nella Rete. Chiunque voglia dire qualcosa, è libero di farlo a tutte le ore, ovunque si trovi e sa che decine, migliaia e, a volte milioni, di persone potrebbero venirne a conoscenza.
L’avvento dei social network e in particolare di Facebook ha reso tutto questo una realtà dalle proporzioni inimmaginabili.
Accanto però al cosidetto pluralismo 3.0, Facebook suo malgrado ha favorito e favorisce la possibilità di una diffusione di messaggi diffamatori, e quindi lesivi dell’onore, della reputazione e della dignità di una persona. Infatti, uno degli elementi costitutivi del reato di diffamazione è la comunicazione con più persone, requisito – quest’ultimo – che è implicito nell’uso del mezzo di Internet, integrando il reato di diffamazione aggravata prevista dall’art. 595, III co., c.p. che fa scattare la pena della reclusione da 6 mesi a 3 anni o della multa non inferiore a 516 euro.
La diffamazione tramite social network costituisce a sua volta un’ipotesi di diffamazione aggravata, atteso che il funzionamento dei “social” è tale da consentire che più persone, anche contemporaneamente, prendano visione di messaggi, commenti, materiale audio-video che si decide di pubblicare sul profilo proprio, di terzi o sulle cd. Community Page, Facebook Page e Gruppi Facebook, il tutto ovviamente modulato sulla base degli standards di privacy scelti.
L’attività di tagging consente oltretutto di far sopravvivere quelle informazioni e/o quel materiale al di là del fatto che l’“autore” ne abbia o meno effettuato la cancellazione.
Diverse sono state le questioni giuridiche sollevate da questa particolare fattispecie di diffamazione e sulle quali la Corte di Cassazione ha fatto luce con diverse pronunce nel corso degli ultimi anni.
Si pensi alle questioni legate al tempo e al luogo di commissione del reato. Ma, ricordiamo, che la responsabilità penale è personale e necessita che sia correttamente individuato l’autore di un reato.
Nel caso specifico della diffamazione a mezzo Facebook fondamentale e imprescindibile ai fini della pronuncia di una sentenza di condanna è l’accertamento dell’Internet Protocol Address, cd. indirizzo IP.
Quest’ultimo consente, infatti, di risalire con certezza al dispositivo, elaboratore o PC – collegato alla rete informatica – utilizzato per pubblicare materiale diffamatorio, e quindi al titolare della linea telefonica associata al profilo Facebook.
Recentemente con la sentenza n. 5352 del 5 febbraio 2018 la V Sezione della Corte di Cassazione ha confermato, rafforzandolo, l’orientamento espresso già in altre sentenze precedenti secondo il quale la mancata verifica da parte dell’Autorità giudiziaria dell’indirizzo IP di provenienza del contenuto lesivo, riferibile al profilo Facebook “incriminato”, non consente di procedere con il massimo grado di certezza possibile all’attribuzione della responsabilità per il reato di diffamazione ex art. 595, III co. c.p., atteso che, mancando tale accertamento, non può escludersi l’utilizzo abusivo del nickname del presunto autore del reato da parte di terzi, né risulta possibile verificare i tempi e gli orari della connessione.
Sulla base di tale argomentazione, la Suprema Corte ha annullato, con rinvio per nuovo esame, la sentenza di appello che aveva confermato la condanna per diffamazione a mezzo Facebook di una sindacalista ritenuta colpevole di aver offeso la reputazione di un Sindaco diffondendo un messaggio denigratorio nei confronti dello stesso tramite il famoso social network utilizzando un profilo Facebook riportante il nome e cognome della imputata. Quest’ultima aveva provato nei giudizi di primo e secondo grado attraverso indagini difensive che l’indirizzo IP in questione, “non verificato” dagli Inquirenti, e ritenuto dai Giudici di primo e secondo grado a lei appartenente, in realtà era intestato al profilo Facebook di altro sindacalista, sul quale numerosi utenti postavano commenti e opinioni.
Ricordiamo che in precedenza la Corte di Cassazione è intervenuta sulla questione dell’accertamento dell’IP in presenza di router domestici che permettono a più utenti di farne uso. Vero è che ciascun dispositivo ha il proprio indirizzo IP privato, ma tutti gli IP privati sono associati ad un IP pubblico, che appunto consente l’identificazione del dispositivo in un determinato lasso di tempo.
Ciò comporta che, in fattispecie del genere, usare l’argomentazione difensiva basata sull’utilizzabilità del router da parte di non meglio identificati terzi utenti abusivi della connessione router non protetta presente nella propria abitazione non può trovare accoglimento in assenza di ulteriori elementi probatori, quali l’interesse concreto di terzi a diffamare la vittima (Cass. Sent. n. 34406/2015 del 6.8.2015).
Oltre all’accertamento dell’indirizzo IP, che è attività in via principale propria degli Inquirenti, non va trascurato, dal punto di vista di chi sporge la denuncia-querela, l’aspetto legato alla corretta acquisizione forense del materiale diffamatorio presente su Facebook atteso che la semplice stampa su carta è una prova insufficiente, così come la stampa “certificata” da parte di un pubblico ufficiale, come il notaio: quest’ultimo, infatti, può soltanto certificare di aver preso visione di quel testo e di quelle immagini, non certamente che Tizio sia univocamente l’autore del reato.
La prova informatica deve essere integra e autentica, il che rende opportuno, se non necessario, effettuare una perizia di parte che dia prova della corretta acquisizione forense del profilo Facebook “incriminato”.