L’art. 101 comma 5 del DPR 917/86 (TUIR) stabilisce che le perdite su crediti possono essere dedotte se risultano da “elementi certi e precisi” e che questi sussistono – tra l’altro – quando il diritto alla riscossione è prescritto, sulla base delle disposizioni di legge inerenti.
Tale disciplina opera per i crediti verso qualunque tipo di soggetto (residente o estero) ed assume quindi natura di disposizione generale. Con riferimento in particolare alla prescrizione, l’Agenzia delle Entrate – AGE (con la circolare n. 26 del 1° agosto 2013) ha chiarito che il suo verificarsi, causando per legge il venir meno del diritto a riscuotere il credito, fa assumere natura definitiva (certa e precisa) alla perdita e quindi ne determina la deducibilità dal reddito.
In buona sostanza, la prescrizione è un evento, esterno al creditore, che legittima per legge la deduzione della perdita e che esonera al contempo il creditore stesso dalla verifica della sussistenza o meno dei presupposti di certezza e precisione. Tuttavia, l’AGE nella citata circolare n.26 ha precisato anche che questo meccanismo automatico non opera qualora l’inattività del creditore, che abbia condotto alla prescrizione del credito, nasconda in realtà una “volontà liberale”.
Tale precisazione, a prima vista, può apparire ovvia, nel senso che se il creditore “gioca” coi termini processuali per maliziosi fini tributari, è corretto che venga penalizzato. Entrando nel merito concreto, però, ci si rende subito conto che questa impostazione antielusiva complica enormemente le valutazioni dell’impresa.
Infatti, essa obbliga a chiedersi quando un determinato atteggiamento in fase contenziosa possa definirsi legittimo o invece possa far presumere una inopinata volontà liberale di non incassare, sino ad arrivare alla conclusione che la prescrizione del credito quale causa di deducibilità della perdita sia di fatto (o meglio, per sicurezza) inapplicabile.
Ne abbiamo la prova concreta nella risposta n. 197/2019 dell’AGE. Il caso ha riguardato una società che vantava crediti nei confronti di soggetti esteri divenuti nel tempo prescritti, nonostante – per il tramite dei suoi legali esteri – avesse effettuato numerosi incontri e solleciti per il loro incasso, rimasti del tutto privi di effetti.
Si aggiunge che la società, pur avendo esperito in fase precontenziosa ogni tentativo per ottenere il pagamento dei crediti, aveva ritenuto di non incardinare alcun procedimento giudiziario in sede civile, né tanto meno aveva dato luogo ad atti interruttivi della prescrizione, in quanto, come spesso succede, non intendeva rovinare i rapporti commerciali col cliente moroso.
L’AGE, chiamata a valutare la legittimità della deduzione delle perdite sui suddetti crediti prescritti, preliminarmente ha chiarito che, per quanto riguarda i crediti verso soggetti esteri in generale, conformemente alla circolare dell’ (AGE) n. 39/E del 10 maggio 2002, la ricerca della sussistenza degli elementi certi e precisi va condotta, per ovvie ragioni, con maggiore attenzione, cercando di adattare le casistiche di deducibilità italiane a quelle previste nello Stato del debitore (fallimento, concordato preventivo, ecc.).
Inoltre, ha ritenuto che il comportamento avuto dalla società per tutelare i crediti, potesse qualificarsi come artatamente preordinato a far maturare la prescrizione e quindi potesse sottendere quella “volontà di liberalità” censurabile dalla Amministrazione Finanziaria. Ciò in quanto, a parere dell’AGE, una mera fase di precontenzioso che non sfoci in formali azioni in sede civile, ivi compresa quella inerente l’interruzione della prescrizione, celerebbe fini elusivi e non darebbe diritto alla deduzione fiscale della perdita per intervenuta prescrizione.
Questa affermazione tuttavia, ha in sé qualcosa di contraddittorio. Infatti, tralasciando l’analisi di merito se sia probante o meno, ai fini della deduzione di una perdita su crediti, l’inefficacia di una poderosa attività precontenziosa, resta l’ossimoro che, secondo l’AGE, per non incorrere nella cc.dd. “prescrizione elusiva”, occorre compiere atti interruttivi della prescrizione stessa, almeno fintanto che non siano acquisiti elementi che comprovino lo stato di insolvenza del debitore.
Ma così è evidente che la prescrizione mai si verificherà. Inoltre, ciò equivale anche a dire che la prescrizione è causa di “sicura” deducibilità, solo se essa interviene quando sia già provata l’impossibilità del debitore a pagare il credito. Tuttavia, così ragionando, il ruolo della prescrizione, ai fini della deducibilità della perdita, diverrebbe del tutto irrilevante, in quanto la deduzione sarebbe già consentita da altre disposizioni del già citato comma 5 dell’articolo 101 TUIR (procedure concorsuali, ecc.).
Tutto questo porterebbe infine alla paradossale conclusione che la causa di deducibilità della perdita di un credito per intervenuta prescrizione è di fatto inapplicabile. Ovviamente, non è così per due ragioni. La prima, di principio, è che esiste una autonoma norma di legge che la prevede espressamente e senza porre condizioni per farne ricorso.
La seconda, di merito, è che, soprattutto nei rapporti con l’estero, l’elevato costo consiglia spesso di non incardinare procedimenti giudiziari, difficilissimi da monitorare e, in tali casi, non interrompere il decorso della prescrizione non è un atto elusivo, ma un mero atto di buon senso e di economicità della gestione.
Occorre quindi che si ponga rapido rimedio a questo equivoca posizione, che non dovrebbe essere difficile da superare. Si è infatti dell’idea che persino l’AGE stessa abbia la consapevolezza che il tema rimane quanto meno scivoloso, non avendo utilizzato nelle sue conclusioni della risposta (in modo abbastanza inusuale) un lessico in chiave positiva ma avendo fatto ricorso invece ad una locuzione al negativo: “non può escludersi che il comportamento… [sia censurabile]”.
Con ciò lasciando, con un fare un po’ pilatesco, all’impresa la scelta se dedurre o meno il costo.