Lavoro, etica, partecipazione

festa rossanoSenza una profonda visione morale, unita ad un grande senso di responsabilità delle singole persone, non può esserci responsabilità collettiva delle e nelle organizzazioni

 

Oggi il mondo occidentale è in preda ad una crisi i cui contorni sono difficili da tratteggiare, tanto appare profonda e diffusa. L’economia, il sistema produttivo e la stessa tenuta dell’occupazione, sono corrose da complesse problematiche da cui non si riesce a trovare via d’uscita. Anche il sistema politico e lo stesso tessuto sociale appaiono disorientati e alla ricerca di una direzione di marcia.
Ha preso piede, invece, un lento processo di logoramento della parte più viva della personalità di ognuno di noi.


É il lavoro che ci consente di partecipare attivamente nella società, permettendoci di migliorare la nostra condizione. Laddove il lavoro viene negato, si perde la possibilità di usufruire di quei beni materiali ed immateriali che costituiscono la nostra fonte di sostegno e, di conseguenza, le interazioni interpersonali risultano più difficili.
Alla luce di quanto si sta verificando nel mondo con l’attuale crisi che coinvolge le banche, gli istituti di credito e le industrie, sono diversi gli economisti e gli studiosi che si sono dovuti ricredere su alcune convinzioni.
Soprattutto si fa strada la consapevolezza che i servizi basati sull’informatica e la finanza, non facendo riferimento ad un’economia trainata da una solida industria manifatturiera, corrono il rischio di operare nel deserto.


Oggi nessuno ritiene che lo Stato debba restare a guardare lasciando libero il mercato di ricercare i propri equilibri, devastando sotto il ciclone della crisi l’esistenza di intere comunità. Anzi, si chiede proprio il contrario, invocando l’aiuto del denaro pubblico per salvare dalla bancarotta banche e colossi industriali.
Oggi noi osserviamo un fenomeno che è sotto gli occhi di tutti: la fuga dalle responsabilità individuali che caratterizza l’operato di molti.
Perchè succede? Perché i manager di grande aziende si difendono affermando “di aver solamente eseguito gli ordini”?
Le cause di quest’atteggiamento e di questa mancata assunzione di responsabilità sono antiche e profonde e vanno ricercate in diversi aspetti che caratterizzano il vivere civile del nostro Paese.


L’uomo contemporaneo ha perso gran parte dei riferimenti naturali, istituzionali, ideologici e spirituali capaci di aiutarlo ad esprimere valori e a dare un senso alla vita, sia individuale che collettiva. Ha perso il rispetto, a tutti i livelli, per le regole e le leggi, anche quelle morali ed etiche, finendo per non credere più a nulla, specie negli altri e nella collettività.


Un altro aspetto che ha contribuito a deresponsabilizzare gli individui è quella visione della vita sociale che considera buono e sano tutto ciò che è collettivo, e cattivo e malato tutto ciò che è individuale.


La scarsa fiducia negli altri, la diffidenza nei confronti delle istituzioni, la prevalenza dell’interesse particolare su quello generale sono caratteristiche che una comunità prima o poi paga a caro prezzo, soprattutto in termini di coesione sociale.
É urgente quindi, da una parte, riportare l’uomo al centro dei processi economici e dell’agire umano; dall’altra rivalutare la cultura della responsabilità individuale che va indissolubilmente coniugata con l’etica.
L’uomo, sia esso imprenditore o manager, dipendente o consulente deve imparare a dire “no” e, in qualche caso, deve imparare “a non fare ciò che potrebbe fare”, perché, tutto ciò che è economicamente o tecnicamente fattibile non è sempre eticamente praticabile. Il rischio è che le organizzazioni operino senza alcun investimento, né impegno diretto per migliorare il mondo, come se l’agire economico facesse parte di un sistema filosofico, politico e sociale astratto e slegato dalla vita dell’uomo.


Ogni volta che prendiamo una decisione non possiamo eludere la domanda che contempla quali conseguenze avrà la nostra decisione sugli altri!
L’etica non è una conquista definitiva. Non è acquistabile, né trasferibile ed è il frutto di precise e consapevoli scelte personali e del lento sedimentarsi di piccoli e quotidiani comportamenti.
Per questo guardo con qualche perplessità alla crescente attenzione che le organizzazioni hanno per la responsabilità sociale, quasi che fosse sufficiente essere “certificati” adottare un “codice etico” e/o chiamarsi “impresa sociale” per essere eticamente corretti e socialmente responsabili.


Le organizzazioni sono eticamente neutre. I comportamenti umani, invece, non sono e non possono essere neutri.
Etica personale, etica professionale e responsabilità sociale sono inseparabili. Senza una profonda visione morale ed etica, unita ad un grande senso di responsabilità delle singole persone, non può esserci responsabilità collettiva delle e nelle organizzazioni.
Tutto quanto detto però conduce a una nuova cultura del lavoro che mette al centro la persona, la sua professionalità, e non un posto fisso specifico e unico che, purtroppo, in questo tempo di crisi, è diventato una chimera.
È l’occupabilità che va valorizzata e non l’attaccamento, spesso esasperato, tra il lavoratore e il suo posto di lavoro. Oggi deve esistere un mercato del lavoro dinamico e inclusivo, che non lasci ai margini donne e giovani. La dinamicità del lavoro consiste nella possibilità di iniziare a lavorare non appena terminati gli studi, e non dopo mesi o anni come accade adesso, ma consiste anche nella necessità di mutare atteggiamento verso alcuni tipi di occupazione spesso considerati distanti dalle proprie aspirazioni.


Purtroppo a causa della persistente recessione, il rassicurante prototipo del lavoro subordinato standard non rappresenta più la fattispecie di riferimento, nella prassi operativa, come nella legislazione sul lavoro.
Naturalmente la mobilità e la precarietà del rapporto rendono necessario che, negli intervalli tra più impieghi, i lavoratori vengano assistiti con adeguati sussidi e con la partecipazione a corsi di riqualificazione, che accrescano la possibilità di trovare presto un nuovo lavoro.
Anche il ruolo del Sindacato, assolutamente importante e centrale per la difesa dei diritti dei lavoratori, ha bisogno di adattarsi all’attuale fase storica.
Anzi il rendersi conto di questa situazione molto negativa cui non è possibile sottrarsi deve costituire per il sindacato uno stimolo importante ad aprirsi al cambiamento e all’apprendimento permanente che oggi appare più che mai indispensabile.
Un moderno sindacato non può manifestarsi unicamente nella tutela e nella promozione del lavoro dipendente a tempo pieno e indeterminato, ma anche nella tutela di nuove forme e tipologie di lavoro che meritano anch’esse apprezzamento e sostegno sociale.
Una nuova sfida e opportunità attende dunque il sindacato che, in tempo di crisi economica, può e deve agire non solo per gestire la necessaria flessibilità del lavoro ma anche per garantire un diritto alla formazione per l’intero arco della vita, come investimento dell’individuo e nell’interesse più generale della società.


Nell’attuale fase di declino assistiamo a veri e propri fenomeni di deindustrializzazione e la ricerca del lavoro si è trasformata da diritto in dramma che coinvolge milioni di persone. Tutto questo, però, sta dentro una nuova “grande trasformazione” che va capita e fatta capire perché può portare la nostra società a nuovi livelli di civiltà, libertà e benessere oppure a farla precipitare verso oscuri lidi regressivi e antidemocratici, se la crisi continuerà ad essere gestita con la visione distorta del conservatorismo che si misura solo con il passato e non con il futuro.


Il Sindacato deve stare con i lavoratori colpiti dalla crisi. Deve difenderli perché cosi mantiene e rafforza la sua natura di organizzazione democratica e si dà titolo per chiedere ai lavoratori stessi di avere fiducia nella possibilità di costruire un diverso avvenire evitando proteste violente.


Ma non può fermarsi a questo. Deve provare ad immaginare la congiuntura come un momento per favorire una valutazione seria sul ruolo etico e sull’identità del Sindacato stesso.
La dimensione etica deve entusiasmare e tormentare la quotidianità dell’impegno sindacale e la multiforme valenza positiva del termine “etica”, insistentemente richiamato anche dalla dottrina sociale della Chiesa, deve pervadere tutta l’economia per il suo corretto funzionamento.


Soltanto se la politica, la classe dirigente e le organizzazioni di categoria datoriali e dei lavoratori sapranno, tutte insieme, interpretare e attuare all’unisono nuove forme di partecipazione, si potrà emergere dalla profonda crisi che ci attanaglia.
Diversamente il baratro è alle porte.