Al di là dei tanti e meritevoli singoli contenuti – la lotta alla povertà educativa, il miglioramento delle infrastrutture, ferroviarie e stradali, la spinta verde del green new deal, tra gli altri – ciò che ci lascia perplessi è la variabile “tempo” con cui inevitabilmente bisognerà misurarsi per passare dall’annuncio alla posa della prima pietra, fino alla conclusione dell’opera
Nelle scorse settimane, in Calabria, è stato presentato – dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, insieme con il ministro per il Sud e la Coesione territoriale, Giuseppe Provenzano, e la titolare dell’Istruzione, Lucia Azzolina – il Piano per il Sud 2020. In esso è contenuto un ampio disegno di rilancio del Mezzogiorno, reso possibile da investimenti pubblici da sviluppare nell’arco di un decennio, con un primo impatto tra il 2020 e il 2022 e un monte risorse di oltre 120 miliardi di euro.
Al di là dei tanti e meritevoli singoli contenuti – la lotta alla povertà educativa, il miglioramento delle infrastrutture, ferroviarie e stradali, la spinta verde del green new deal, tra gli altri – ciò che ci lascia perplessi è la variabile “tempo” con cui inevitabilmente bisognerà misurarsi per passare dall’annuncio alla posa della prima pietra, fino alla conclusione dell’opera.
Se le misure fissate al 2022, infatti, ci sembrano avere una qualche chance di realizzazione, occorre molto ottimismo per credere cosa fatta quelle spostate al 2030, tenuto conto anche della frequente turnazione dei governi in Italia.
Lo slancio sentimentale del presidente Conte nel dire: «Oggi apriamo il cantiere dell’Italia di domani» ci è sembrato a dir poco fantasioso. Ovvietà per ovvietà, siamo proprio sicuri che aprire un cantiere, e farlo funzionare, sia così semplice e rapido nel nostro Paese? Dall’ultimo censimento Ance, sono 749 le opere bloccate in Italia per un valore complessivo di 62 miliardi di euro.
Si riuscirà allora a rendere concretamente attuabili le azioni previste nel Piano? E in quali tempi?
L’esperienza ci ricorda che negli ultimi venti anni se ne sono annunciati e visti tanti di piani per il Sud, con altrettante numerose variazioni sul tema. Il rischio allora è che si chiami “piano” anche questo, non tanto per esaltarne la progettualità, quanto piuttosto perché si ha già un’idea della velocità di marcia con cui potrebbe procedere. Lo abbiamo detto in passato e di certo non siamo i soli a ribadirlo. Nel nostro Paese qualsivoglia progetto di sviluppo economico finisce spesso per scontrarsi, in primis, con l’indolenza della burocrazia, con l’amministrazione che va “piano” o perché si sente super tutelata nell’esercizio delle sue funzioni, o perché – al contrario, in presenza di norme non chiare – non si sente protetta dallo Stato nell’applicazione delle sue competenze e si difende non firmando e, di fatto, fermando l’opera, l’autorizzazione, il Paese.
Oltre alla macchina amministrativa, in Italia ci pensa anche la lentezza della giustizia a rallentare il passo. Se a questi due fattori, poi, aggiungiamo l’insorgere di comitati e associazioni che si mettono di traverso ogni qualvolta si voglia realizzare una nuova opera, nella convinzione che sia superflua o addirittura dannosa per la collettività, gli stop, i ricorsi e sigilli di varia natura saranno inevitabili.
Piuttosto che continuare a garantire tutti, finendo con il non garantire nessuno, per unire il Sud con il Nord del Paese andrebbe recuperato quello spirito costruttivo che, poco più di mezzo secolo fa, ci ha permesso di realizzare l’Autostrada del Sole. Appena 8 anni per quasi 800 chilometri, con una chiusura lavori addirittura anticipata.
Quelli sì erano tempi in cui le decisioni diventavano cantieri.