Per un migliore rapporto contribuente – Amministrazione Finanziaria, sarebbe utile un deciso ed esaustivo intervento del Legislatore per fare chiarezza su di una materia tanto controversa
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, a seguito di una verifica tributaria, il maggior reddito accertato ad una società di capitali a ristretta base proprietaria comporta l’ulteriore emissione di avviso di accertamento in capo ai soci relativamente alla parte di reddito (extra contabile) loro imputabile in ragione della quota di partecipazione al capitale sociale da ciascuno detenuta, in quanto presunti percettori di reddito di capitale. È noto che tale modus operandi non trae origine da un impianto normativo ben definito, ma da una prassi maturata esclusivamente in sede giurisprudenziale, secondo cui, operando una sorta di equiparazione tra società di persone e società di capitali a ristretta base partecipativa, è ritenuto legittimo assoggettare a tassazione i maggiori utili extra-bilancio non dichiarati e accertati nei confronti della società direttamente in capo ai soci, presumendo che tali utili occulti fossero loro distribuiti.
Secondo tale consolidato orientamento della Corte di Cassazione, il presupposto in base al quale sia legittimo presumere che vengano distribuiti ai soci gli utili “in nero” accertati alla società di capitali a ristretta base azionaria, è ravvisabile proprio nell’esiguità del numero dei compartecipi, nel vincolo di solidarietà tra loro, nella possibilità che ciascuno ha di conoscere gli affari societari, nel reciproco controllo.
La ridotta compagine sociale, quindi, rappresenta a tutti gli effetti la chiave di volta che consente all’Amministrazione Finanziaria di presumere la distribuzione di utili ai soci e di ribaltare su di loro l’onere di dimostrare in giudizio il contrario, ovviamente mediante la nota probatio diabolica. In genere, l’impianto giurisprudenziale sopra delineato, che trova fondamento nei casi in cui il maggior reddito societario accertato derivi dall’accertamento di ricavi occulti non dichiarati o dall’accertata presenza di costi fittizi o inesistenti, rappresenta un contesto in cui al comportamento adottato, in taluni casi fraudolento, potrebbe affiancarsi il concetto di complicità sopra indicato.
Stessa considerazione, a parere dello scrivente, non può però essere condivisa nell’ipotesi in cui la presunzione di distribuzione ai soci di utili extracontabili da parte di società a ristretta base partecipativa si applica se il maggior reddito accertato alla società tragga origine non da ricavi occultati o costi fittizi, ma nell’ipotesi di costi indeducibili, così come recita una recentissima pronuncia della Suprema Corte, secondo cui: «…i costi costituiscono un elemento rilevante ai fini della determinazione del reddito d’impresa, sicché quando essi siano “fittizi” o “indeducibili”, scatta la presunzione che il medesimo è maggiore di quanto dichiarato o indicato in bilancio, con la conseguenza che non può riscontrarsi alcuna differenza tra la percezione di maggiori ricavi e l’indeducibilità o inesistenza di costi» (Corte di Cassazione, sezione 5, sentenza 02.02.2021, n. 2224).
Non è difficile considerare che l’equiparazione tra costi inesistenti e costi indeducibili appare piuttosto ostica da digerire, alquanto arbitraria ed eccessivamente penalizzante per il contribuente, laddove per i costi indeducibili non si prevede la costituzione di alcuna provvista finanziaria occulta distribuibile.
È ben noto che la disciplina dei costi indeducibili trae spunto da disposizioni normative ben definite di varia natura e principi. Si pensi all’indeducibilità dei costi in ossequio al principio di competenza, oppure alla deducibilità limitata di tali costi quali la gestione delle autovetture, delle spese per telefonia, delle spese di rappresentanza, degli interessi passivi, o ancora l’indeducibilità delle sanzioni, ecc., ma quand’anche alle ipotesi di indeducibilità derivanti da talune controverse fattispecie di mancanza del presupposto di inerenza, oppure, ancor più controverse, quelle derivanti da presunte considerazioni di operazioni commerciali ritenute antieconomiche nell’ambito di una sana gestione aziendale.
Ricordando che il costrutto giurisprudenziale in esame rappresenta pur sempre una classica “praesumptio de praesumpto”, nella quale la ristretta base azionaria è assunta come fatto noto per presumere l’esistenza di un vincolo di complicità che avvince i partecipanti al sodalizio, in detti casi non solo non può far ulteriormente presumere, con sufficiente probabilità, che quegli utili siano stati effettivamente distribuiti ai soci, che la distribuzione sia avvenuta nello stesso periodo d’imposta in cui li avrebbe prodotti la società e nella stessa proporzione della quota di partecipazione al capitale sociale, ma addirittura risulta inequivocabilmente insussistente qualsiasi ipotesi di complicità o coinvolgimento dei soci stessi.
La materia è complessa, controversa e non ancora univoca in campo giurisprudenziale.
Da un lato, in tema di presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili accertati in capo ad una società a ristretta compagine sociale, un orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte ne riconosce la legittimità sulla base del fatto noto costituito dalla complicità, dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci nell’ambito delle anzidette società. Dall’altro, sempre la giurisprudenza di legittimità ha però ammesso, in altre circostanze, che la stessa presunzione può essere superata qualora l’amministrazione non fornisca la cosiddetta prova rafforzata della ristretta base sociale e dell’effettiva distribuzione degli utili, e/o laddove il contribuente dimostri la sua estraneità alla gestione e conduzione societaria. Dunque, se è pur vero che, in più occasioni, la Cassazione ha stabilito che la ristretta base partecipativa di una società di capitali rappresenta quei requisiti di gravità, precisione e concordanza propri delle presunzioni semplici, è anche vero che ulteriori orientamenti giurisprudenziali sono tesi a rilevare che la dimostrazione della ristrettezza della base societaria è condizione sì necessaria, ma non sufficiente per l’accertamento dei maggiori redditi di capitale a carico dei soci.
Come già detto, l’azione accertatrice dei verificatori nei casi qui analizzati non trae origine da un impianto normativo ben definito, ma da una prassi maturata esclusivamente in sede giurisprudenziale.
Nell’ottica di un miglioramento dei rapporti tra contribuente e Amministrazione Finanziaria, anche in ambito della più volte sbandierata riforma semplificativa del sistema fiscale, sempre ostentata ma mai attuata, si auspica un deciso e esaustivo intervento del Legislatore volto a fare chiarezza sulla materia.