La costruzione di una strategia di prevenzione dell’infiltrazione criminale va maggiormente conciliata con l’esigenza di tutelare la libertà di iniziativa economica e la presunzione di innocenza. In questo processo di necessario aggiustamento, un ruolo prioritario deve assumerlo la giurisprudenza
Uno degli argomenti più spinosi che l’esperienza di avvocato amministrativista pone innanzi è quello delle informative prefettizie antimafia. Argomento difficile da esaminare, poiché interessa temi che comprensibilmente rendono molto cauti burocrazie, giudici e anche legali.
L’incidenza che il fenomeno ha assunto è enorme: una statistica riferisce di circa 200.000 interdittive negli ultimi dieci anni, per lo più nelle forme meno gravi, dovute ai cosiddetti “eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa”, provvedimenti emessi, come a molti è noto, anche sulla base di meri indizi o ancor più labili sospetti. Le conseguenze – per le persone e le imprese colpite da teli atti prefettizi- risultano talvolta peggiori di una acclarata condanna penale, tanto che è stata coniata la formula di ergastolo amministrativo, a causa del quale si è impossibilitati a trattenere qualsiasi rapporto con la P.A., il che, nel nostro sistema, in cui l’amministrazione permea qualsiasi vicenda economica e sociale (dalla patente, al permesso di costruire; dalla licenza commerciale al fido in banca) vuol dire quasi la morte civile.
Cosa potrebbe migliorare, allora, anche con l’attuale – criticabile – legislazione?
L’ampia discrezionalità prefettizia voluta dalle norme, e per lo più avallata dalla giurisprudenza amministrativa, non può essere ammessa oltre certi limiti, senza definitivamente snaturare le certezze sulle quali pure deve poter contare l’investimento economico. Pur comprendendo che il fenomeno mafioso è subdolo, trovare dei meccanismi per meglio definire quando sia concreto il pericolo di infiltrazione appare necessario. Il fattore tempo – categoria fondante dell’esperienza umana, come ben si sa – non può più essere solo formalmente ossequiato ma poi non valorizzato come si dovrebbe. Eppure tale variabile è stata decisiva nelle ampie motivazioni per reggere l’attuale normativa che ha illustrato la Corte Costituzionale con la sentenza n.57/2020, ed è stata trattata anche dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 3/18. Si è detto in entrambe le pronunce che il provvedimento prefettizio deve essere considerato temporaneo.
Purtroppo nella pratica non è così, sia per la lunghezza dei procedimenti giurisdizionali, sia per la cautela con cui si muovono le burocrazie in questa materia anche dopo anni dall’interdittiva. Se è trascorso tempo cospicuo da una prima interdittiva, questa deve effettivamente scadere (a meno di conferme espresse e specie quando siano seguiti procedimenti giudiziari).
Si può anche pensare all’esercizio di un prosieguo del regime limitativo, ma solo se valutato dal Tribunale di prevenzione.
Va chiarita la necessità di un preventivo contraddittorio, che porti ad un sereno colloquio tra chi indaga e l’impresa, in maniera che taluni aspetti possano essere chiariti prima di ricorrere all’Autorità giudiziaria. Maggior ruolo va poi dato ai principi della Convenzione dei diritti dell’Uomo e da quanto espresso in alcune sentenze della Corte Costituzionale: combattere la criminalità e quindi tutelare l’ordine pubblico è certo un valore che deve essere garantito, ma rispettando con precise cautele la libertà di iniziativa economica e la presunzione di innocenza, il suo corollario minimo quale è la reputazione. Parrebbe quasi ovvio, ma non è stato così in questi anni. Altro capitolo è quello dei legami di parentela. La giurisprudenza afferma in parole generali che da soli questi non bastino a fondare interdittive, ma, all’atto pratico, attraverso sofismi vari, il principio viene disapplicato. Eppure su questi aspetti si giocano partite sociali importanti: quel far ricadere sui figli le colpe dei padri significa impedire l’elevazione, il riscatto dei singoli, in cui meriti e demeriti vengono ascritti per nascita, non acquisiti in base alla libera determinazione individuale. Precetto che è poi al cuore dei valori occidentali.
Appare anche ineludibile definire il perimetro preciso in cui l’informativa interviene. Se è corretta andrebbe confermata la regola secondo cui nessun apporto pubblico, nessuna erogazione di risorse pubbliche, possano essere dati ad un’impresa interdetta.
Non è chiaro invece perché sulla scorta di elementi indiziari, senza alcun procedimento penale né misure di prevenzione, si possa negare al cittadino un permesso di costruire per realizzare la propria abitazione o semplicemente per svolgere una diversa attività economica.
Oggi ad un’impresa interdetta è addirittura impedito di manutenere la facciata di un condominio e al titolare di richiedere una SCIA. Un tale rigore per di più porta a conseguenze che possono risultare paradossali, perché spesso ha finito con l’indurre imprenditori sani verso le braccia della criminalità. E in ogni caso conduce a situazioni grigie, spesso perché prima di rassegnarsi alla chiusura, molti provano a servirsi di prestanomi, sconfinando in circostanze tutt’altro che legali. Infine, alla luce dell’attuale esperienza, non può più accettarsi che tali provvedimenti così devastanti non possano conoscere graduazione. Insomma, appare davvero incongruo che subisca la stessa sanzione interdittiva l’impresa collusa – magari con indagine seria in corso – e l’impresa che, per esempio, non ha denunciato un tentativo di estorsione o – accade anche questo – imprese gestite da lontani parenti d’un pregiudicato. Si badi, mai deve venir meno uno Stato che combatte la criminalità, ma questo mezzo dell’interdittiva disposta dal Prefetto va utilizzato con equilibrio e saggezza: un ruolo decisivo può averlo la Giurisprudenza, speriamo capace in futuro di segnalare che l’attuale meccanismo non ha prodotto i risultati sperati e spesso ha portato a palesi ingiustizie, pagate carissime dagli interessati.