«Dieta mediterranea sotto attacco»

Oltre all’italian sounding, una seria minaccia al nostro Made in Italy arriva dal nutriscore, un sistema antiscientifico che semplifica e categorizza i cibi in buoni e cattivi. A rischio molte delle nostre eccellenze. Ne abbiamo parlato con Ivano Vacondio, presidente di Federalimentare

 

 

Presidente, con Cibus – dopo lunghi mesi di stop – è ripartito il comparto fieristico in presenza: un bilancio?

Il bilancio è ottimo. Le imprese del food sono pronte a ripartire e l’edizione 2021 di Cibus lo ha dimostrato: 2.000 aziende espositrici, 40.000 visitatori di cui 2.000 dall’estero. Un Salone partecipato che ha visto anche convegni di alto livello, in linea con le nuove tendenze e i grandi temi del food&beverage, dall’innovazione alla sostenibilità.

Ora occhi puntati sull’edizione 2022: tutte le aziende presenti quest’anno hanno confermato la loro partecipazione alla prossima edizione di Cibus e speriamo che molte altre si aggiungano. Insomma, le aspettative ora sono alte ma le premesse ci sono tutte: le nostre aziende sono pronte a conquistare nuovi mercati e l’obiettivo dei 50 miliardi di export che stiamo per raggiungere ci dà nuovo slancio dopo un anno difficile come è stato il 2020. Inoltre, puntiamo anche a un fatturato che a fine anno speriamo possa arrivare a 154 miliardi, con un +8% rispetto allo scorso anno.

Nonostante la pandemia, l’agroalimentare italiano è andato fortissimo sui mercati internazionali. Ci sono margini per crescere ancora?

Ci sono moltissimi margini per crescere ancora. Possiamo farlo sia nei mercati in cui il nostro food&beverage è già consolidato – uno su tutti gli USA – sia e soprattutto nelle economie emergenti, come il Vietnam (che ha registrato +37,3% rispetto allo scorso anno), la Malaysia (+36,6%) e la Corea (+52,4%). Per questa ragione gli accordi di scambio sono fondamentali e dobbiamo continuare a farne così che il Made in Italy possa arrivare con facilità in paesi sempre nuovi.

E dico Made in Italy non a caso: infatti, dei 50 miliardi di export agroalimentari, 40 miliardi sono fatti dall’industria. Lo “stress test” dell’anno scorso, in piena pandemia, ha dimostrato che le esportazioni dell’industria alimentare hanno tenuto, con un aumento 2020/19 del +1,0% e ora che speriamo il peggio sia alle nostre spalle ci aspettiamo che i numeri che stiamo facendo quest’anno siano solo l’inizio e che i nostri prodotti possano conquistare sempre più mercati. Parlando delle nostre eccellenze, una menzione va fatta anche alle produzioni a indicazione geografica garantita, il cui valore si può stimare ormai attorno ai 17 miliardi di euro. La loro crescita negli ultimi anni è stata costantemente superiore a quella del settore alimentare aggregato e oggi esse incidono per oltre l’11% sul fatturato dell’industria alimentare.

Quali sono gli ostacoli che ancora incontrano le imprese nella penetrazione dei mercati esteri?

Alcuni fattori critici riguardano caratteristiche “strutturali” che indeboliscono la competitività degli operatori nazionali, come la dimensione media troppo esigua delle aziende, l’assenza di catene nazionali della distribuzione moderna all’estero, gli alti costi fissi che le imprese italiane devono sostenere rispetto ai competitor e, negli ultimi mesi, i costi proibitivi della logistica, particolarmente impattanti soprattutto per i prodotti a marginalità più ridotta. Più spesso, però, gli ostacoli all’export riguardano elementi esogeni: le barriere tariffarie derivanti dall’imposizione di dazi all’ingresso e soprattutto non tariffarie che ritardano o limitano fortemente l’accesso ai mercai esteri. Basti pensare alle innumerevoli barriere tecniche, relative ad aspetti di etichettatura (anche nutrizionale) o all’ingredientistica, nonché alle barriere riguardanti aspetti sanitari e fito-sanitari, molte volte stabilite pretestuosamente con intenti protezionisti per inibire la conquista di quote di mercato da parte dei prodotti italiani. Non da ultimo, va ricordato il fenomeno dell’Italian Sounding che sottrae una platea di potenziali consumatori, indotti – tramite l’uso di simboli, bandiere, colori e nomi fuorvianti – ad attribuire una presunta italianità a prodotti i quali nulla hanno a che fare con l’autentico made in Italy alimentare.

Più volte lei ha rimarcato l’esistenza di attacchi da più fronti al settore. Quali sono quelli più preoccupanti e come è possibile scongiurarli?

Gli attacchi di cui parlo sono di diversa natura ma mirano tutti a colpire la nostra dieta mediterranea e dunque i nostri prodotti. A livello mondo c’è un attacco alla nostra dieta per uniformare tutte le diete a quelle vegetariane o flexitariane con lo scopo di farle diventare “più sostenibili”. Ma la dieta mediterranea è sostenibile e le nostre industrie sono da tempo impegnate a ridurre l’impatto dei processi produttivi sulle risorse naturali e sulla necessità di tagliare i consumi di acqua, energia elettrica e plastica. La questione della sostenibilità ci sta a cuore ma non può tradursi in una guerra alla nostra dieta, da sempre considerata tra le migliori al mondo, come testimoniano le crescenti esportazioni in tutto il mondo del nostro Made in Italy. Collegata a questa battaglia, ce n’è un’altra, a livello europeo: quella dell’etichettatura e in particolare del nutriscore, un sistema antiscientifico che nulla aggiunge all’informazione del consumatore ma che – anzi – semplifica e categorizza i cibi in buoni e cattivi. Con il nutriscore, molte delle nostre eccellenze – come l’olio d’oliva o il parmigiano reggiano – non avrebbero un bollino verde ma arancione o rosso. Credo che dietro queste battaglie ci siano interessi di tipo economico e non legati alla sostenibilità e alla salute: i nostri prodotti conquistano sempre più fette di mercato, che fanno gola a molti.

Nuove sfide sono imminenti: le aziende sono pronte? Il sistema Paese è pronto?

Le aziende sono pronte, ma abbiamo bisogno che la politica ci aiuti: stipulando nuovi accordi di libero scambio e, in generale, aiutando, ascoltando e supportando un settore che è il secondo comparto manifatturiero del Paese e che contribuisce al PIL nazionale per l’8%.