Secondo una recente pronuncia, il decorso dei termini fa decadere l’azione di accertamento per l’anno in questione ma non la facoltà di utilizzo dei fatti e dei comportamenti fiscali di quell’esercizio. Gli effetti per le imprese non potranno che essere pesanti e portare a situazioni paradossali
Una pronuncia della Corte di Cassazione a sezioni unite (la n.8500/2021) sta provocando una generale sollevazione da parte di operatori ed esperti in materia tributaria, per gli impliciti effetti che essa è in grado di produrre e che vanno probabilmente anche oltre quanto la stessa Corte potesse immaginare. La fattispecie sottoposta al giudizio della Corte riguardava un accertamento effettuato dall’Agenzia delle Entrate (“AGE”) ad una Stabile Organizzazione di una banca estera, avente ad oggetto la deduzione (ex art.106 comma 3 TUIR vecchia formulazione) di perdite su crediti di natura finanziaria vantati verso Parmalat.
Questa norma, in sintesi, prevedeva che le svalutazioni sui crediti finanziari, eccedenti una determinata soglia annuale pari allo 0,60% dei crediti complessivi, potessero esse dedotte solo nei nove esercizi successivi. La materia del contendere era il mancato riconoscimento del diritto a dedurre la svalutazione di un credito (sia per la parte sotto soglia che, a maggior ragione, per la sua eccedenza) per ragioni attinenti alla natura stessa del suddetto credito. La particolarità di questa vicenda è che il periodo d’imposta (2003), in cui era sorto il fatto generatore della contestazione – perdita del credito – era già fiscalmente prescritto e l’AGE aveva indirizzato la sua contestazione sul recupero a tassazione della quota della deduzione (1/9) riferita a un periodo d’imposta successivo ancora “aperto” (2004).
In altre parole, l’AGE non potendo più contestare l’irregolarità nell’anno di competenza dell’operazione, ha voluto sterilizzarne gli effetti fiscali negli anni successivi e la sentenza in commento, riformando peraltro le decisioni opposte delle corti di merito, ha ritenuto tale operato corretto. Per motivare questa asserzione la Corte è partita precisando che a ciascun periodo d’imposta corrisponde un’autonoma e distinta obbligazione tributaria e conseguentemente un’altrettanta distinta attività accertatrice, i cui termini scadono entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello della presentazione della relativa dichiarazione.
A questo ha poi aggiunto che i singoli accertamenti sugli elementi pluriennali dedotti, proprio per la natura delle poste in questione, devono necessariamente avere come base l’analisi del loro fatto generatore, e la circostanza che l’annualità di generazione non sia stata oggetto di verifica nei termini, non può mai vanificare l’attività di verifica dell’AGE. Da questi assunti, la Cassazione ha concluso che i termini di decadenza per l’accertamento della deducibilità o meno di un rateo di una componente pluriennale, devono decorrere dall’anno di presentazione della dichiarazione contenente il suddetto rateo e non da quello della prima iscrizione in bilancio della relativa componente.
La Corte però è andata anche oltre, ritenendo infatti di chiarire che questa tecnica accertativa è legittima per ogni ipotesi in cui la norma fiscale preveda meccanismi di deduzione di costi o di utilizzi di crediti d’imposta, diluiti nel tempo, introducendo nei fatti una sorta di meccanismo di recapture di atti lontani nel tempo e non più contestabili perché riferiti ad anni non accertabili.
Si fa presto a capire che il perimetro del recapture è molto ampio, ricomprendendo ammortamenti, risconti, plusvalenze rateizzate, variazioni in diminuzione a fronte di costi non dedotti nel passato e così via.
Esso può estendersi, insomma, a tutte quelle voci del bilancio che possano avere dei disallineamenti temporali tra contabilizzazione e rilevanza fiscale, oppure prevedano dei processi di concorso al reddito imponibile frazionato nel tempo. Ma non è tutto. Secondo la Corte il recapture coinvolge anche l’utilizzo a scalare nel tempo di crediti d’imposta maturati in esercizi non più accertabili, come ad esempio i cc.dd. “Bonus”, oggi largamente utilizzati da parte del Legislatore, nonché l’eventuale acclarata inesistenza di passività verso i soci, rivenienti dal passato. Addirittura, c’è in sentenza anche un richiamo ad una risalente pronuncia della Cassazione (n.1583/1989) che era arrivata ad ipotizzare un sindacato dell’AGE persino sull’utilizzo delle perdite pregresse maturate – ugualmente in periodi non accertabili – laddove fosse possibile contestare l’inesistenza delle stesse a monte.
In poche parole, per la Cassazione il decorso dei termini fa decadere l’azione di accertamento per l’anno in questione ma non la facoltà di utilizzo dei fatti e dei comportamenti fiscali di quell’esercizio. Gli effetti per le imprese di questa decisione non potranno che essere pesanti e portare a situazioni paradossali. Per andare in compliance con questa sentenza, infatti, le imprese dovranno stabilire procedure abbastanza stravaganti per stabilire a fine anno quali documenti dismettere di anni passati e quali conservare, sulla base di un analitico esame voce per voce, per periodi di tempo del tutto indefiniti.
Questo lavoro certosino potrebbe portare al paradosso di una conservazione per 50 anni nel caso dell’ammortamento del marchio rivalutato (la cui durata di recente è stata proprio portata a tale entità) o fino all’estinzione dell’impresa, nel caso di contestazione nell’utilizzo di perdite pregresse. Tutta questa impostazione giurisprudenziale naturalmente è in evidente contrasto con le disposizioni del codice civile e dell’art. 22 del DPR 600/73, che, per la conservazione dei libri e documenti contabili, prevedono termini precisi e ben più ridotti rispetto a quelli che la Corte immagina.
La Cassazione, tuttavia, si è premurata anche di gestire tale contrasto, e se l’è sbrigata facile, precisando che la possibile incostituzionalità della sua pronuncia deve ritenersi superata dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 247/ 2015. Peccato che tale sentenza trattasse del raddoppio dei termini di accertamento in caso di reati penali. Fattispecie, pertanto, del tutto diversa e peraltro riferita a norma non più in vigore. In buona sostanza, con questa sentenza peraltro a sezioni unite, sembra che venga attribuito all’AGE una sorta di lasciapassare per il “fine fisco mai”.
A valle dello scenario prefigurato dalla Cassazione, si pongono dei piccoli problemi pratici. Il primo è come si fa a spiegare ad un imprenditore che deve investire nella logistica, non per aumentare i magazzini ma per stipare documenti contabili.
Il secondo è come si può evitare che potenziali investitori esteri fuggano, dinanzi al fatto che se vogliono comprare un’impresa in Italia, per gestire il rischio fiscale, non devono fare le classiche due diligence, ma devono imbastire una revisione analitica contabile-fiscale ed essere anche certi di aver recuperato dal venditore tutti i documenti nel massimo dettaglio possibile degli ultimi decenni. Il terzo problema si riferisce agli effetti che questa visione accertatrice potrà generare sul comportamento delle imprese.
Non credo che potremo criticare quell’impresa che, dinanzi a costi in teoria capitalizzabili ma di incerta tenuta fiscale, ritenga più conveniente il loro passaggio integrale a conto economico anziché portarli patrimonio. Infatti, il rischio di un accertamento di un unico esercizio è senza dubbio inferiore a quello dei diversi esercizi in cui il costo capitalizzato verrebbe ammortizzato, e questo comportamento avrebbe anche lo spiacevole corollario del danno in termini finanziari per l’Erario. Si potrà dire certamente che il giudizio di una Cassazione a Sezioni Unite non può che essere corretto per definizione, ma si lasci rispondere che stavolta forse non è giusto.