NBA, storia di ordinaria lealtà

Boston TD Garden 9 agosto 1992: l’addio al basket di Larry Bird, una vita leggendaria

 

Il cuore pulsante di una città, della squadra più titolata d’America. Gli spalti si aprono nell’ombra intorno al parquet illuminato da un faro, solo al centro. La luce è gialla, caldissima e soffocante. Dal soffitto esageratamente alto pendono nomi e numeri bianchi di leggende su panno verde. Da lassù ondeggiano con calma i trofei, gli eroi. Qui la storia si scrive in bianco su verde, non in nero su bianco. Quei panni verdi sembrano foglie di un albero senza la minima intenzione di cadere, ma di restare lì, appese contro ogni vento e contro ogni stagione a scrutare giocatori e tifosi con la grazia, il silenzio e il colore delle foglie, ma con il peso delle montagne.

 

C’è un uomo al centro del cono di luce, indossa la tuta bianca dei Celtics con il trifoglio verde sul braccio. I suoi capelli sembrano di paglia e la faccia è rossa, enorme, irregolare. Il suo nome e il suo numero stanno per salire tra i panni del soffitto, tra le foglie dell’albero. Il ruolo della foglia potrebbe stargli stretto, potrebbe, un giorno, piovere dal ramo e morire dalla voglia di tornare ad essere una radice sul parquet, in mezzo al campo. A tenere in piedi tutto l’albero.

L’uomo in tuta bianca è un contadino dell’Indiana con il carattere di un generale, uno sicuro di sé oltre ogni limite, capace di prendersi gioco del mondo intero con il suo tiro in sospensione. Il desiderio feroce di vincere, il bisogno fisico di vincere e di dominare chiunque provi a impedirglielo sono il fuoco che brucia nei confini di un carattere non definibile da un paio di aggettivi, ma non propriamente amabile. Quell’uomo ha surclassato e ridicolizzato centinaia di avversari, ha fatto a pugni con Dr. “J” e mezza Philadelphia e non è escluso che abbia fatto a pugni anche con se stesso.

Mentre saluta il pubblico si accorge di non essere solo sotto il cono di luce: c’è un altro, della stessa statura, indossa una vistosa tuta gialla bordata di uno strano viola/porpora. È nero, ha i capelli ricci e compatti come una siepe rasata dal giardiniere e un sorriso stampato sulla bocca da vent’anni. Un sorriso magnetico in campo e fuori, forse il sorriso di chi si è divertito da matti combinando con un pallone in mano tutto quello che si poteva combinare, di chi ha interpretato il gioco in tutti i ruoli e in tutte le sue forme e ha dato spettacolo su tutti i campi. Di chi ha vinto tutto con lo stesso desiderio feroce dell’altro uomo, lo stesso fuoco, non contenuto tra le pareti di un carattere spigoloso, ma ammantato di eleganza, di leggerezza, di magia.

L’uomo in tuta gialla si avvicina, sfoderando il solito sorriso. Scappa da ridere anche al ragazzone dell’Indiana: sa già che sta per accadere qualcosa di speciale, di straordinario, come ogni volta che quel sorriso si avvicina. Con l’aria di chi la sta facendo grossa, trattenendo una risata fragorosa, sbottona la giacca. Nascosta sotto il tessuto lucido e la grande “L” viola c’è una maglietta bianca, una tshirt da tifoso con sette grandi lettere verdi sul petto: Celtics. I due continuano a ridersela più forte di prima e si abbracciano. I loro nomi sono cuciti sulle loro spalle e incisi sui cuori di chiunque abbia mai provato meraviglia per il basket. Larry Bird ed Earvin “Magic” Johnson.

 

Non è facile descrivere un gesto come quello di Magic in un mondo come quello della National Basketball Association. L’ambiente forse più competitivo nel mondo dello sport, del professionismo più esasperato, dell’agonismo ai massimi livelli. Atleti abituati a pensare e a competere da professionisti fin dal liceo, di prodotti di un sistema unico, della trafila High School – College – Franchise, della grande “catena di montaggio” addetta all’educazione sportiva del Paese e alla costruzione dei suoi atleti di vertice. Della fabbrica dei campioni.

Inutile specificare il clima di estrema competitività: rivalità tra scuole, rivalità tra College, rivalità tra franchises, tra città. E Bird e “Magic” Johnson si sono trovati al centro, anzi, sono stati il centro per anni della rivalità più feroce, più importante di tutte: Celtics contro Lakers. East Coast contro West Coast, il mondo degli affari, della finanza contro il mondo di Hollywood, azioni di borsa contro Oscar, irlandesi contro ispanici. Perfino le divise, i colori destano impressioni completamente diverse. Il giallo/porpora losangelino, la visibilità, l’estro e il verde/bianco bostoniano, la sobrietà, la tradizione. Larry e Magic sono i simboli di tutto questo, uno bianco, l’altro coloured, uno riservato, concreto, l’altro estroverso, magnetico.

Ma per quanto riguarda loro, le differenze finiscono qui. I due vedono il gioco esattamente allo stesso modo, sono alti più di due metri e si muovono con estrema rapidità, con eleganza regale. Non a caso Magic diventa il primo lungo a giocare da point guard. Sono due leader assoluti, due uomini-squadra. Opposti fuori dal campo, paralleli sul parquet: si potrebbero definire come inversamente proporzionali. Dai tempi della finale NCAA del ’79 sono stati avversari anche senza il bisogno di essere in campo contemporaneamente. Bastava la consapevolezza di essere i più forti e di avere un solo vero rivale.
Situazione bizzarra. Bird era il più forte del mondo, Magic anche. Entrambi potevano dire di essere migliori di chiunque ad eccezione di uno. Larry metteva 700 tiri al giorno in Massachusetts col terrore che Magic in California ne avrebbe messi 800. Il pubblico si sarebbe aspettato un odio reciproco, ma dopo anni passati a rispettarsi profondamente, durante le riprese di uno spot per la Converse, il rapporto cambiò e divennero amici.

Esiste un concetto unico, molto particolare, in questo sport. Un concetto che si estende dai playground alle Finals: “the love of the game”. Non è di semplice traduzione, non è solo amore per il gioco. È allo stesso tempo amore per il gioco come atto pratico e come tutto ciò che lo riguarda, amore per la palla, per il compagno di squadra e sì, amore per l’avversario. Non bisogna però farsi illusioni, questo tipo di amore non impedisce sportellate, blocchi, marcature asfissianti e trash talking vari.

Questo amore è basato sul rispetto, e il rispetto si conquista con la fatica. Che esistano concetti come gli ultimi anche tra professionisti dello sport per cui vincere è una missione e su campi dove la legge è quella del più forte è merito di uomini come Bird e Johnson.
Basterebbe ricordare cosa disse Magic dopo quell’abbraccio: “Non ci sarà mai e poi mai un altro Larry Bird”.
E non era una frase di circostanza.