Riforma della giustizia: tra efficientismo e nuovi paradigmi culturali

Occorre trovare nuovi equilibri nell’accesso alla giurisdizione mediante l’implementazione e l’incentivazione di sistemi complementari, creando così una diversa cultura nell’approccio al conflitto e riducendo anche la domanda che diversamente approderebbe sempre e comunque al sistema giudiziario statale 

 

La pubblicazione del decimo rapporto annuale della Commissione europea sullo stato della giustizia nei Paesi dell’Unione europea registra per l’Italia un nuovo primato negativo.

Infatti, dalla lettura del rapporto EU Justice Scoreboard 2022 emerge ancora una volta un quadro preoccupante sull’efficienza della giustizia italiana, posto che l’Italia si colloca nell’ultima posizione di tutte le classifiche che attengono alla durata media dei procedimenti in materia civile e commerciale.

I segnali positivi che pur iniziano ad affiorare non sono sufficienti tuttora ad invertire la rotta e l’Italia (con riguardo ai dati del 2020 pubblicati nel report del 2022) si distingue tristemente nel quadro europeo delineato dalla Commissione UE per l’incapacità di fornire adeguate risposte in termini di efficienza.

E così dal rapporto 2022 emerge una stima della durata dei procedimenti civili e commerciali, in primo grado, pari a 674 giorni (in crescita rispetto ai 532 giorni del 2019, con un incremento del 27%). Anche per il secondo grado di giudizio si passa dai 791 giorni del 2019 ai 1.026 del 2020 (con un incremento del 30%). Peraltro, l’incidenza della pandemia è certa come è certo che l’Italia ha maturato i peggiori dati tra i Paesi dell’Unione. Un segnale positivo riguarda invece la definizione dell’arretrato anche se il numero di procedimenti civili pendenti in primo grado pone l’Italia tra i Paesi che registrano i numeri tuttora più elevati in Europa.

Questi dati riportano alla memoria altre rilevazioni statistiche, tra le quali quelle del Ministero della giustizia che non molto tempo fa aveva stimato la pendenza di oltre 550 mila procedimenti che potrebbero causare richieste di indennizzo per l’irragionevole durata del processo.

Al riguardo, appare utile ricordare che fino al 2001 l’Italia era tra gli Stati che avevano subìto il maggior numero di condanne dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per violazioni della Convenzione europea sui diritti umani e, in particolare, dell’art. 6, che impone agli Stati di garantire una durata ragionevole dei processi. Il 37% di tutte le sentenze di condanna da parte della Corte per inefficienza della giustizia era a carico dell’Italia.

E il numero dei procedimenti contro l’Italia a Strasburgo sarebbe andato via via aumentando se, il 18 aprile 2001, non fosse entrata in vigore la legge 89/2001 (conosciuta come legge Pinto), che impone di richiedere l’indennizzo per l’eccessiva durata dei processi mediante il ricorso a una Corte di Appello italiana anziché alla Corte europea.

La situazione è poi progressivamente migliorata, anche se in alcune recenti statistiche della Corte europea dei diritti umani l’Italia resta tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa che hanno il più alto numero di casi di cui Strasburgo deve occuparsi.

A fronte di questa situazione, si deve sottolineare che, per la prima volta, l’Italia sta lavorando ad un’estesa e complessa riforma della giustizia civile. Infatti, con l’approvazione della legge del 26 novembre 2021 n. 206 il Parlamento ha conferito la delega al Governo per l’attuazione di un ampio ventaglio di interventi con il dichiarato obiettivo di ridurre la durata dei processi concordata in sede europea entro i 5 anni del PNRR (riduzione della durata del 40% sino ad arrivare a “quota mille”, cioè ad una durata media dei processi di mille giorni).

In tempi record è stata adottata la legge delega (infatti, le linee programmatiche sono state tracciate dalla Ministra Cartabia alle Commissioni Giustizia dei due rami del Parlamento il 17 e il 18 marzo 2021) e anche la fase attuativa – avviata nel gennaio scorso con la nomina dei Gruppi di lavoro – è nella fase finale che prevede la redazione delle proposte per poter giungere poi alla definitiva approvazione da parte del Governo entro la scadenza del termine fissato per il 24 dicembre 2022.

La situazione appare quindi estremamente complessa, ma inizia a prendere corpo una profonda riforma della giustizia civile i cui princìpi sono orientati non soltanto all’efficienza e, quindi, alla riduzione dei tempi processuali, ma anche alla realizzazione di un sistema integrato tra giurisdizione e strumenti consensuali in una logica non meramente deflativa.

Si tratta di un obiettivo ambizioso e necessario. D’altronde, le esperienze maturate all’esito delle molteplici riforme del processo civile hanno dimostrato come il tentativo di incidere (solo) sulla durata del processo modificando le norme che lo regolamentano è velleitario: insomma, trasponendo il noto aforisma di Winston Churchill, la sfida non è più quella di chi resta in piedi in un secchio e cerca di sollevarsi tirando il manico.

Il tema dell’efficienza, infatti, non può essere trattato in una prospettiva semplicemente quantitativa. Il “prodotto” del sistema giustizia non consente di lavorare alle riforme nella logica di un mero efficientismo che non valorizzi le esigenze della migliore e più efficace tutela dei diritti dei cittadini e delle imprese che vivono situazioni conflittuali e che devono trovare adeguata e rapida composizione.

E la vera e più profonda novità della riforma in atto attinge proprio ad una prospettiva culturale che non limita il suo sguardo alla durata del processo e al miglioramento dei suoi meccanismi interni, ma si apre a un sistema allargato che colloca la giurisdizione e gli altri strumenti di giustizia in un rapporto di complementarità. Non più subordinazione, dunque, dei sistemi consensuali al processo, ma integrazione e cooperazione tra gli stessi caratterizzano il nuovo corso della giustizia.

In questa rinnovata prospettiva la giustizia non si identifica con la giurisdizione e i procedimenti consensuali non sono ancillari al processo, ma possono interagire creando percorsi virtuosi. E se l’efficienza della giustizia costituisce il necessario presupposto per il corretto funzionamento del sistema economico, ancor di più la stessa appare indispensabile per la coesione sociale del Paese concorrendo a ricucire e a risanare il tessuto connettivo della società.

D’altronde basterebbe rilevare che le modalità nelle quali in una società si confligge dipendono direttamente anche dagli strumenti di risoluzione che la medesima società offre ai suoi consociati per avvedersi che è necessario investire seriamente nei sistemi di dispute resolution c.dd. “coesistenziali”, quelli cioè tesi a “rammendare” il rapporto conflittuale valorizzando prioritariamente l’esigenza della pacifica convivenza e della sostenibilità sociale.

Nel contesto descritto, ritorna nitido il messaggio della Ministra Cartabia contenuto nelle linee programmatiche della riforma in cui, a suo tempo, ha assegnato con chiarezza centralità alla mediazione e agli altri sistemi di risoluzione delle controversie diversi dal processo, valorizzandone gli effetti virtuosi non solo per l’alleggerimento del carico giudiziario, ma in una funzione di «complementarità» e, quindi, di coesistenza più che di alternatività.

Crisi della giurisdizione e crisi del sistema giudiziario sono dunque entrambe causa ed effetto di un collasso che è culturale prim’ancora che organizzativo e che per questo non può trovare soluzione soltanto attraverso azioni di riorganizzazione degli uffici o di implementazione degli organici e ancor meno nell’ennesima riforma processuale.

Per ogni esperienza organizzativa sociale e non solo aziendale vi è un break even point che la giustizia civile ha superato da tempo; aumentare le risorse sposterebbe soltanto un po’ in avanti il BEP. Occorre rafforzare e promuovere sistemi di autocomposizione dei conflitti in una prospettiva di sostenibilità utile ad un riequilibrio fisiologico del circuito conflitto/rimedio.

Occorre trovare nuovi equilibri nell’accesso alla giurisdizione mediante l’implementazione e l’incentivazione di sistemi complementari (anche integrati), creando così una diversa cultura nell’approccio al conflitto e riducendo anche la domanda che diversamente approderebbe sempre e comunque al sistema giudiziario statale.