Dall’impegno nella centenaria azienda di famiglia alla guida di una fondazione di comunità: Antonia Autuori racconta il suo percorso personale e di lavoro a vele spiegate
La sua è una storia di un ritorno: formazione e primo lavoro a Milano per poi rientrare a Salerno e dedicarsi all’azienda centenaria di famiglia. Cosa o chi è stata la sirena che l’ha riattirata al Sud?
Se mi guardo indietro, trovo tutto il senso delle scelte compiute. Nell’83 mi sono laureata in informatica a Salerno, facoltà scelta per la mia naturale inclinazione nel risolvere i problemi ma soprattutto per la possibilità di trovare facilmente, e in breve tempo, un impiego. Per lavorare in questo campo, però, allora era necessario spostarsi al Nord. Mi sono trasferita così prima a Milano, in IBM, e poi a Roma. Dopo undici anni, mio fratello Ferdinando mi ha convinta a fare ritorno a casa, per mettere a disposizione dell’azienda di famiglia le mie competenze. Erano gli anni – il 1996 – in cui si stava mettendo mano a una profonda trasformazione della società fondata dal mio bisnonno Michele nel 1871, da società unipersonale a personale e poi a srl. Fino ad allora non avevo mai preso in considerazione l’idea di lavorare nell’azienda di famiglia perché ero cresciuta con la convinzione che la logistica in ambito portuale non fosse un mestiere per donne. E invece…tornata a Salerno ci ho messo poco a ritagliarmi il mio spazio, informatizzando tutti i processi aziendali. La famiglia è stata la sirena, certo, ma la curiosità è stata fondamentale per accettare la sfida che mi ha cambiato il destino.
Ha cominciato nel mondo dell’IT, ai tempi a trazione prevalentemente maschile. Qual è stata la sua esperienza? Ha dovuto faticare per emergere?
Contrariamente a quanto si possa immaginare, già a quei tempi le donne nel mondo informatico erano tante, anche se la catena dirigistica era quasi esclusivamente al maschile. C’era differenza, nei fatti, tra uomo e donna e c’è tuttora. In IBM, a Segrate, lavorando allo sviluppo dei sistemi informativi interni ero trattata, non dico con sospetto, ma con una certa distanza di sicurezza perché non solo ero donna: ero una donna che veniva dal Sud. A Roma lavoravo nella filiale che seguiva il credito e a quel tempo le banche erano prettamente ambienti maschili.
Il mare è per lei un valore identitario?
Profondamente. Il mare è dentro di me, l’ho vissuto fin da piccola grazie a mio padre che mi parlava del suo lavoro così dinamico e coinvolgente e, prima ancora, ai racconti di mio nonno, ai suoi ritratti di un mondo affollato di gente piegata dalla fatica e dalla vita però mai vinta, che guardava al futuro comunque con speranza. In una famiglia come la mia finisci con il respirarlo il mare. Quando mi sono trasferita a Milano era l’affetto che più mi mancava. Per me l’aria, il vento, sono beni insostituibili.
Non solo impresa. Da anni è presidente della Fondazione Comunità Salernitana. Quale parte di sé esprime questo impegno?
Senz’altro la creatività. In un’azienda tradizionale devi pensare soprattutto all’organizzazione; in una Fondazione di comunità, le cui attività devono servire da stimolo per diffondere e incrementare la cultura del dono, devi invece allenarti a pensare in modo diverso rispetto ai modelli che i processi di modernizzazione hanno creato, cercando di coinvolgere sempre più persone nel fare del bene. Il presupposto è semplice e potente ed è lo stesso che sosteneva Antonio Genovesi, filosofo ed economista italiano cui, nel 1754, fu affidata la prima cattedra di economia per la quale impartirà “Lezioni di economia civile”: «È legge dell’universo che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri».
C’è quindi distanza – operativa, manageriale, culturale tra l’industria e una realtà del terzo settore?
Sostanzialmente no, anche se nel Terzo Settore italiano la componente femminile ha un peso importante ed è molto più numerosa che in altre realtà socio-produttive. Quasi 2 milioni di volontarie e quasi 700mila lavoratrici su 850mila (dati 2021) anche se resta ancora scarsa la loro presenza ai vertici delle associazioni. La forte presenza delle donne è un valore aggiunto per il nostro mondo che, proprio grazie al primato femminile, è fortemente innovativo.
È anche vero però che le retribuzioni sono più basse rispetto al settore profit e forse questa è una delle ragioni per cui sono impiegate più donne che spesso scelgono di lavorare non solo per l’aspetto materiale ma soprattutto per quello generativo. Parte della ricompensa è dare vita a progetti che rimangono e che possono davvero avere un riverbero positivo sulla vita degli altri.
La società finalmente sta cambiando approccio rispetto alle donne di impresa. Cosa è cambiato, la società o sono cambiate le donne?
Sono i tempi a essere cambiati. Il nostro è un mondo che non può permettersi più gli angeli del focolare. Le donne devono lavorare, anche se – come dicevo prima – la differenza la fa lo sguardo sulle cose: ancora c’è chi crede che l’uomo deve lavorare, mentre la donna può. Non è così.
Quanto alle donne, piuttosto mi preoccupa questa sorta di involuzione cui, credo, stiamo in parte assistendo a causa di modelli sbagliati che ci vogliono o eccezionali se raggiungiamo una posizione professionale importante, o eterne seconde, come molti stereotipi ancora ci fanno credere. Una bipolarità che non mi trova affatto d’accordo. Possiamo probabilmente avere valori più saldi, ma la tenacia, la determinazione e la bravura appartengono alla persona, non al genere. Alle donne quindi dico: siate consapevoli della vostra forza e delle vostre responsabilità anche nella lotta per la parità di genere, tuttora solo agli inizi.