I probabili effetti delle pregiudiziali sollevate alla Corte di Giustizia dal Tribunale di Napoli e dalla Corte Costituzionale
Prima di passare a commentare la sentenza n. 26951.13 del 2.12.2013 della Corte di Cassazione per sua maggiore comprensione da parte dei non addetti ai lavori è d’obbligo premettere che il fenomeno del precariato è di sicuro uno dei problemi più scottanti nel mondo del lavoro, ed è probabilmente secondo solo alla disoccupazione che, nel gennaio di quest’anno, ha raggiunto il 13%. Esso si manifesta attraverso contratti a termine, strumento giuridico diffuso in ambito sia di impiego privato, sia di pubblico. Nell’impiego privato elevata è stata l’attenzione dei manager al fine di evitare, per quanto possibile, assunzioni non corrette e /o comunque non conformi alle normative di legge in materia, soprattutto per le sanzioni in cui si poteva e si può incorrere, in particolare per la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con conseguente coatto inserimento in organici già dimensionati o addirittura sovradimensionati e comprensivi problemi organizzativi- produttivi.
Non altrettanta attenzione c’è stata da parte dei dirigenti apicali e non del settore pubblico che hanno proceduto, e tuttora continuano a procedere, ad assunzioni con contratti a termine, forti del fatto che l’art. 97 della Costituzione (secondo cui agli impieghi della PA si accede solo per concorso) impedisce la conversione del contratto a termine in quello a tempo indeterminato. Tale modus operandi, che permette di eludere legalmente l’obbligatorietà dei concorsi (pur motivato anche dai noti vincoli di bilancio) ha generato abuso nell’esercizio del diritto da parte della Pubblica Amministrazione, che la Cassazione nella sentenza quivi commentata, sanziona con condanna a titolo risarcitorio di ben dieci mensilità.
Gli effetti di tale sentenza saranno: accentuata responsabilizzazione della dirigenza pubblica, in particolare nei settori scuola e sanità, ove più diffuse sono le violazioni alle norme vigenti in materia nell’utilizzo abusivo di successione dei contratti a termine.
Il fatto.
In primo grado il ricorso di una dipendente assunta con quattro reiterati contratti a termine sottoscritti in successione era stato rigettato dal magistrato adito. La Corte di Appello di Perugia, invece, riformava tale pronuncia di rigetto e condannava la Struttura Sanitaria al pagamento a titolo risarcitorio di dieci mensilità di retribuzione, pari al <<tempo verosimilmente necessario per trovare nuovo lavoro>>. La Corte si limitava a tale sanzione, dal momento che non era possibile la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ostandovi la vigente normativa. LA C.C., nel confermare le difficoltà a riconoscere la conversione del rapporto a tempo indeterminato trovandosi nel caso di specie in ambito Pubblica Amministrazione, ha riconosciuto come giusta e legittima la sanzione risarcitoria, liquidata in via equitativa dalla Corte di Appello come responsabilità contrattuale. Vero è che anche in precedenza altre due sentenze della Cassazione avevano riconosciuto il danno, ma esso andava provato da parte del dipendente, dimostrazione molto difficile, se non “diabolica”. Infatti, la stessa Corte di legittimità con la sentenza 392 del 2012 aveva onerato il lavoratore della prova del danno subito in caso di abusivo utilizzo della successione dei contratti a termine nel pubblico impiego. La Cassazione quivi commentata, invece, ha ritenuto che il danno non deve essere provato, in quanto la sanzione risarcitoria non è connessa al danno subito durante la prestazione ex art. 2126 c.c., ma a quello conseguente alla illegittima cessazione del rapporto, vale a dire al danno contrattuale per la perdita ingiustificata del posto di lavoro.
In buona sostanza le dieci mensilità di retribuzione servono a risarcire il dipendente del tempo verosimilmente necessario a trovare altro posto di lavoro. Quindi, il risarcimento non è legato alla prova di un danno, in quanto assume la caratteristica propria della “sanzione”, come richiesto dalla clausola 5 della Direttiva 1999/70 riguardante le misure di prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato. Sul tema in questione rivestirà notevole importanza la pronuncia della Corte di Giustizia sulle ordinanze pregiudiziali sollevate dalla Corte Costituzionale e dal Tribunale di Napoli, la cui udienza di discussione è fissata per il 27 marzo 2014.
Con l’ordinanza n. 207/2013 “Napolitano”, la Corte Costituzionale ha voluto instaurare un dialogo con la Corte di Giustizia per risolvere il problema del precariato scolastico, trasferendo in sede europea la soluzione della tutela di insegnanti precari così come ha fatto poco prima il Tribunale di Napoli che con le tre Ordinanze “Mascolo”, “Forni”, “Racca” ha segnalato la mancanza di sanzioni effettive in favore dei docenti che svolgono supplenze nell’ambito scolastico. In particolare con l’ordinanza 207/2013 la Corte Costituzionale ha rinviato alla Corte di Giustizia la questione sulla compatibilità della normativa italiana rispetto alla Direttiva Comunitaria n.1999/70 in tema di reiterazione dei contratti a termine e assenza di risarcimento del danno per quanti abbiano ricevuto contratti a termine successivi tra loro per un periodo superiore a 36 mesi, svolgendo le medesime mansioni presso lo stesso datore di lavoro, così come previsto dall’art. 5, comma 4-bis del D.Lgs. n. 368/2001.
Pertanto, anche a seguito alle suddette pregiudiziali, la giurisprudenza sembra coesa nel tentare di rappresentare le istanze di tutela dei lavoratori precari nel pubblico impiego e in particolare nella scuola pubblica. La sentenza della Corte di Giustizia fornirà, quindi, adeguate indicazioni ai giudici nazionali circa l’applicabilità di sanzioni in tema di abuso alla successione di contratti a tempo determinato. Ad oggi sono stimati in più di 130.000 precari che si ritrovano nelle condizioni sopra descritte e che hanno maturato i relativi diritti e che pertanto potrebbero richiedere il risarcimento del danno subito dall’utilizzo spropositato di una successione di contratti a termine.