Accertamenti sui conti correnti bancari, i “corretti limiti” alle contestazioni dell’Agenzia delle Entrate

antonio viscontiLe risultanze delle indagini finanziarie non possono costituire uno strumento di applicazione automatica ai fini dell’accertamento di maggiori redditi per imprese e professionisti poiché richiedono un’elaborazione e una valutazione successiva

 

Entrando nel vivo della materia afferente gli accertamenti bancari, la normativa di riferimento prevede che, sia con riferimento alle imposte dirette (art. 32 del Dpr 29 settembre 1973, n. 600), che all’Iva (art.51 del Dpr 26 ottobre 1972, n. 633), l’Ufficio procedente possa, previa autorizzazione del Direttore centrale dell’accertamento dell’Agenzia delle Entrate o del direttore regionale della stessa, ovvero, per la Guardia di Finanza, del Comandante regionale, richiedere direttamente al contribuente, ovvero agli intermediari finanziari che hanno intrattenuto rapporti con lui, dati e notizie validi ai fini dell’attività accertativa.

Nello specifico, può essere richiesta l’esibizione dei dati, delle notizie e dei documenti relativi a qualsiasi rapporto intrattenuto od operazione effettuata, ivi compresi i servizi prestati e le garanzia prestate da terzi o dagli operatori finanziari con cui si è intrattenuto il rapporto, quali: banche; Poste italiane spa (per le attività finanziarie e creditizie); società ed enti di assicurazione per le attività finanziarie; intermediari finanziari; imprese di investimento; organismi di investimento collettivo del risparmio (Oicr); società di gestione del risparmio (Sgr); società fiduciarie. In questi casi, i dati pervenuti all’Ufficio sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38 (rettifica delle dichiarazioni delle persone fisiche), 39 (redditi determinati in base alle scritture contabili), 40 (rettifica delle dichiarazioni dei soggetti diversi dalle persone fisiche) e 41 (accertamento d’ufficio) del Dpr n. 600/1973, nel caso in cui il contribuente non dimostri che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito o che le movimentazioni contestate non hanno rilevanza allo stesso fine.

Prosegue poi la norma statuendo che sono altresì posti come ricavi o compensi, qualora il contribuente non dia menzione del soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei medesimi rapporti o delle medesime operazioni.

Attraverso lo strumento delle indagini bancarie, è dunque possibile la ricostruzione della base imponibile tramite metodi presuntivi: inizialmente, dette indagini erano utilizzate per la determinazione del solo reddito d’impresa, tuttavia, a seguito della Legge 311/04, la giurisprudenza ha esteso la possibilità di utilizzo delle presunzioni anche per altre tipologie di reddito. Tra l’altro, occorre tenere in considerazione che, a fronte dei maggiori ricavi determinati, il contribuente ha diritto al riconoscimento dei costi sostenuti, pure ove questi non siano stati indicati nelle scritture contabili. Appare chiaro che la più grande criticità di tale tipologia di accertamento del maggior imponibile consista nella difficoltà di giustificare movimenti che vengono imputati a maggior reddito. Sino ad oggi l’Agenzia delle Entrate ha utilizzato le risultanze dei predetti controlli per farne scaturire direttamente e immediatamente delle contestazioni di maggior reddito, tuttavia, l’articolo 32, co. 1, n. 2) del Dpr 600/1973, rubricato “poteri degli uffici”, si colloca, dal punto di vista “sistematico”, in una diversa posizione procedimentale. Tale disposizione, infatti, dovrebbe assumere valore nell’ambito dell’attività istruttoria degli uffici e non in quella di accertamento. L’articolo 32 del Dpr n. 600/1973 prevede, infatti, che i dati relativi ai rapporti intrattenuti con gli intermediari finanziari «sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli articoli 38, 39, 40 e 41» (dello stesso Dpr 600/1973). Il fatto che la norma disponga che i dati derivanti dalle indagini finanziarie sono “posti a base” delle rettifiche disciplinate dai successivi articoli 38, 39, 40 e 41 dello stesso Dpr 600/1973, vuole semplicemente affermare che i dati e gli elementi tratti dalle indagini devono poi essere “canalizzati” all’interno delle norme che disciplinano gli accertamenti.

Quasi sempre, invece, nell’interpretazione della norma e nella concreta applicazione da parte degli Uffici territoriale delle Entrate, ci si limita ad affermare che l’articolo 32 del Dpr 600/1973 prevede che i dati derivanti dalle indagini sono “posti a base delle rettifiche”- senza però considerare quali e le regole di queste – se il contribuente non dà apposite dimostrazioni. Proprio il fatto che la norma “chiama” il contribuente a fornire determinate dimostrazioni (ad esempio, che i versamenti effettuati non hanno rilevanza reddituale) ha portato la giurisprudenza della Cassazione (e così anche l’Agenzia) a ritenere che la norma disciplini una presunzione legale, che inverte l’onere probatorio e lo attribuisce al contribuente. Tuttavia, non viene considerato che la norma parla di dimostrazioni e non di prove a carico del contribuente (il che non è affatto secondario) e che la stessa risulta collocata in un contesto – quello delle attività istruttorie – che per “sua natura” non può disciplinare presunzioni di legge, visto che queste possono essere presenti, semmai, nelle norme che disciplinano gli accertamenti. Il fatto che si preveda che il contribuente possa dare delle dimostrazioni non è altro, quindi, che la rappresentazione dell’obbligo di esperire il contradditorio preventivo, così che il contribuente possa dare in quella sede dimostrazione circa l’effettiva consistenza dei dati acquisiti dagli uffici. In questo modo, questi ultimi possono escludere dall’eventuale accertamento i dati per i quali vengono fornite idonee giustificazioni. Accertamento che, se si guarda alle regole valevoli per gli imprenditori e i professionisti, dovrà essere emanato secondo i canoni recati dall’art. 39 del Dpr 600/1973, il quale non contempla alcuna presunzione legale, che inverte l’onere probatorio, e dunque, presuppone l’integrazione dei mezzi di prova derivanti dalle indagini bancarie con altri e ulteriori elementi “gravi, precisi e concordanti”. E questo vale anche per la previsione (applicabile solo agli imprenditori) dei prelievi non giustificati.

Ed è proprio questo l’elemento di novità, chiarito anche di recente dal Direttore dell’Agenzia delle Entrate Orlandi, che da un lato rende finalmente chiara l’illegittimità di tutti quei recuperi emessi sulla scorta dell’automatismo con le risultanze delle indagini bancarie, e dall’altro, impone agli Uffici – ai fini dell’emanazione degli avvisi di accertamento – l’effettuazione di ulteriori e più attente valutazioni prima di procedere al recupero a tassazione delle movimentazioni bancarie prive di adeguata giustificazione. In definitiva, l’articolo 32 del Dpr 600/1973 disciplina un “qualche cosa” che sta prima rispetto agli accertamenti. E, quindi, risulta corretta l’affermazione che i dati derivanti dalle indagini finanziarie non possono determinare alcun automatismo, ma vanno “canalizzati” all’interno delle specifiche norme sugli accertamenti. Va da sé che particolare valenza assumerà in siffatto contesto l’instaurazione di una corretta e attenta fase di “contraddittorio” tra contribuente e Agenzia delle entrate, preventiva all’emanazione di atti di contestazione.

Il contraddittorio, infatti, nell’ambito di tale procedimento, assolve alla triplice funzione di: garanzia del contribuente, che viene coinvolto in fase preventiva nell’analisi dei dati raccolti al fine di fornire le giustificazioni del caso; legalità del procedimento amministrativo, qual è quello di accertamento, nel quale il contribuente è sempre più partecipe con la conseguenza di una maggiore sostenibilità della pretesa tributaria qualora sia sottoposta al sindacato giurisdizionale rafforzamento del procedimento; ricerca della giusta imposta che, se condivisa, consente al contribuente di fruire della riduzione delle sanzioni tributarie previste dalle diverse leggi d’imposta ed all’erario di incassare in tempi celeri. Tra l’altro di recente la Suprema Corte, con la sentenza n. 4314/2015, anche aderendo agli ormai consolidati orientamenti comunitari, ha rinnovato l’invito agli Uffici a operare l’attività di contraddittorio preventivo, pena l’illegittimità del conseguente atto di accertamento.Infine, valutando anche le recenti evoluzioni interpretative analizzate, appare evidente come proprio il contraddittorio possa rappresentare quella fase in cui l’Ufficio procede ad acquisire e integrare gli “ulteriori” mezzi istruttori necessari per la corretta e compiuta motivazione di un avviso di accertamento emesso secondo i precetti recati dagli artt. 39 e ss del Dpr n. 600/73.