Per la Suprema Corte di Cassazione gli atti dei dirigenti decaduti sono validi. I funzionari, inoltre, facendo ricorso a quanto stabilito dalla Corte di Giustizia Europea, potrebbero richiedere di essere stabilizzati
La sentenza della Corte Costituzionale n. 37 pubblicata in Gazzetta Ufficiale in data 25 marzo 2015 aveva dichiarato di fatto l’illegittimità dell’attribuzione dell’incarico a circa ottocento dirigenti dell’Agenzia delle Entrate.
La suddetta sentenza aveva sollevato non poche perplessità e l’annuncio da parte delle associazioni di consumatori dell’avvio di svariati ricorsi per richiedere l’annullamento degli avvisi di liquidazione di imposta e le irrogazioni delle sanzioni firmate da questi “dirigenti”. Difatti a seguito della sentenza della Consulta, alla pronuncia della Commissione Tributaria di Milano del 31 marzo 2015, si sono aggiunte le sentenze n. 1789 e 1790 del 21 maggio 2015 della Commissione Tributaria di Lecce, che hanno annullato gli avvisi di accertamento firmati da uno dei “dirigenti decaduti”.
Con la recentissima sentenza n. 22800 del 9 novembre 2015 si è espressa, invece, la Suprema Corte di Cassazione, la quale ha stabilito che «in base all’art. 42 dpr 600/1973 l’avviso di accertamento
è nullo se non reca la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato.
A seguito della evoluzione legislativa e ordinamentale sono oggi “impiegati della carriera direttiva” ai sensi dell’art. 42 dpr 600/1973 i “funzionari della terza area” di cui al contratto del comparto
agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005 (art. 17). E – in base al principio della tassatività delle cause di nullità degli atti tributari – non occorre, ai meri fini della validità dell’atto, che i funzionari deleganti e delegati possiedano la qualifica di dirigente, ancorché essa sia eventualmente richiesta da altre disposizioni».
Con la suddetta sentenza, pertanto, si è trovata una soluzione alla problematica relativa agli atti firmati dai dirigenti “decaduti”, ma persiste, e dovrà essere affrontato (e in molti si sono attivati), il problema dei 767 dirigenti, che a seguito della sentenza della Consulta si sono visti revocare immediatamente l’incarico dirigenziale.
Si pensi che per anni gli uffici dell’Agenzia sono stati costituiti da funzionari con incarichi dirigenziali con contratti a tempo determinato succeduti in maniera reiterata nel tempo, fino alla pronuncia della Sentenza della Consulta che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’ultima proroga, con la conseguente decadenza di tutti i dirigenti, senza concorso. Questi ultimi, ora, potrebbero rivendicare, anche in forza della sentenza della Corte di Giustizia Europea “Mascolo” e altri del 26 novembre 2014 (III Sezione) nelle cause riunite C-22/13, C-61/13, C-62/13, C-63/13 e C-418/13 sul precariato pubblico scolastico e non, l’accertamento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato o richiedere, comunque, il risarcimento dei danni per la violazione della direttiva europea 1999/70/CE.
Difatti, la suddetta direttiva, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP (ovvero nell’ordine Sindacato europeo, Confindustria europea e Associazione europea delle imprese) sul lavoro a tempo determinato, ha creato un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dalla successione di contratti di lavoro a tempo determinato, affermando, tra l’altro, il principio di non discriminazione enunciato nella clausola 4 dell’accordo quadro, in base al quale «i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive».
Come nel caso della “Mascolo” e dei precari della scuola, i contratti a termine reiterati per oltre i 36 mesi sono da considerarsi un abuso che deve essere comunque sanzionato o con la conversione del contratto da tempo determinato a indeterminato o con riconoscimento di una indennità risarcitoria.