Bisogna lavorare per costruire occasioni di collaborazioni tra piccola agricoltura di qualità con grandi OP e agricoltura industriale, così da agevolare gli investimenti necessari in ricerca e innovazione, correggendo il tiro su alcuni impatti ambientali e sociali
Con una velocità che – bisogna ammetterlo – non aiuta ad avere certezze, le tecnologie emergenti stanno trasformando ogni parte del complesso sistema alimentare a livello mondiale. Siamo nel bel mezzo di una nuova rivoluzione che viene raccontata come un’innovazione buona: la via per la soluzione dei grandi problemi di questo tempo. In realtà l’agricoltura di precisione, in questo momento, è un’intensificazione dell’agricoltura convenzionale presentata come una rottura radicale. Se infatti si racconta che è una soluzione ai problemi dell’efficienza e alla sostenibilità ambientale, nella realtà il suo uso in molti casi contraddice in modo evidente questa buona reputazione.
Un’abbondanza inarrestabile di sovrapproduzione agricola, crolli dei prezzi e promozione del consolidamento delle aziende agricole, contraddicono il principale quadro retorico dell’agricoltura di precisione che ne fa la necessaria soluzione alla richiesta di cibo in più, necessario per le previsioni di aumento demografico entro il 2050.
L’innovazione tecnologica in agricoltura, quindi, non sta portando, almeno ad oggi, evidenti effetti benefici sull’ambiente, né tanto meno a livello sociale ed economico, dato che sta creando grosse difficoltà ai piccoli agricoltori con conseguente aumento della povertà, soprattutto in alcuni Paesi. Sullo sfondo, inoltre, si apre la grande questione dell’applicazione delle tecnologie 4.0 che presuppongono una grossa produzione di dati che vanno raccolti, stoccati, utilizzati e valorizzati. E ad oggi sono i big del sistema agroindustriale che stanno creando piattaforme e integrazione di sistemi tecnologici, innovazione di prodotto (per esempio attraverso carne sintetica e superfood) e meccanismi finanziari che riducono la redistribuzione della ricchezza prodotta concentrandola in poche (pochissime) mani. Affinché questi ideali di sostenibilità ambientale, economica e sociale si concretizzino, devono penetrare negli attuali sistemi di produzione e distribuzione. Il fatto critico da affrontare non è tanto che i singoli agricoltori facciano fatica ad essere ambientalisti; piuttosto è la logica di base del sistema convenzionale che rende inevitabilmente preferibile la scelta basata sul mercato rispetto a quella fondata sull’ecologia. A fronte dei tanti problemi posti dal sistema alimentare convenzionale sarebbe folle concludere che questo stesso sistema, alle sue condizioni, non abbia avuto successo: l’aumento delle rese e quindi la disponibilità complessiva di cibo, rappresentata dall’ibridazione del mais e dalle successive tecnologie della Rivoluzione verde, non può essere negata. Ma questi successi sono basati su esternalità che non possono più essere sostenute. Come l’ONU stesso ha recentemente riconosciuto, il food system in quanto tale semplicemente non può continuare così. Né, quindi, l’agricoltura convenzionale può continuare in questa direzione.
La domanda è: cosa la sostituirà? Tutti i processi di innovazione scientifica e tecnologica in corso hanno un grandissimo potenziale ma senza un cambio di paradigma non sarà possibile uscire dal circolo vizioso dell’estrazione di risorse e della scarsa redistribuzione di ricchezza prodotta. Anche gli strumenti 4.0 (Big Data, Intelligenza Artificiale, Realtà Virtuale, Internet of Things, Blockchain ecc.) possono – e devono – essere ripensati, plasmando le tecnologie in accordo con le esigenze reali delle persone e delle altre forme di vita. Inoltre è importante sviluppare un’idea sistemica di cambiamento, orientata all’intera filiera del foodsystem. In realtà socio-economiche come le nostre, in cui la maggior parte delle imprese sono piccole o piccolissime, le innovazioni di processo e di prodotto (anche attraverso l’uso delle innovazioni scientifiche e delle tecnologie) vanno accompagnate e supportate. Attori istituzionali come le Università, le Camere di Commercio, i Centri di formazione, o anche attori come i GAL o gli Enti Parco, insieme a soggetti come le Regioni, possono svolgere un ruolo importante: da una parte per accompagnare le singole imprese verso la transizione digitale (per esempio attraverso i servizi e le risorse erogate dai PID delle Camere di Commercio), dall’altra creando luoghi fisici nei quali sperimentare insieme l’innovazione.
Per esempio portando anche i piccoli produttori agricoli a inventare prodotti trasformati che valorizzano (e integrano) i loro prodotti e supportandoli nell’individuazione di possibili mercati. Le occasioni che le filiere istituzionali possono co-produrre sono tante e hanno il pregio di muoversi su logiche diverse rispetto a quelle estrattive dell’economia contemporanea.
Si aprono grandi varchi di opportunità per le imprese agroalimentari del Sud.
Ma bisogna lavorare per costruire ponti e per creare occasioni di collaborazioni tra piccola agricoltura di qualità (fatta spesso di piccole imprese familiari che lavorano a presidi tipici che danno lustro e identità al brand territoriale) con grandi OP e agricoltura industriale, che può investire in ricerca e innovazione, può garantire infrastrutture di dati che i piccoli agricoltori non potrebbero permettersi e che, correggendo il tiro su alcuni impatti ambientali e sociali come del resto sta già facendo, può imporsi come un settore leader dell’economia del Mezzogiorno. È una via per portare nuovo valore ai territori, mettendo in circolo energie e competenze, che soprattutto appartengono alle giovani generazioni, verso la Next Generation EU che non consideri il meridione un territorio di serie B.