Allarme carne rossa: i diversi punti di vista

giuseppe fatatiCome per tutti gli alimenti, ser ve equilibrio nel consumo tenendo bene a mente che la dieta mediterranea ha dimostrato di poter diminuire il rischio di tumore

 

Lo IARC (International Agency for Research on Cancer), braccio operativo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il 26 ottobre scorso ha lanciato la notizia, destinata a far discutere, sull’imminente pericolo da consumo di carni rosse. «Sulla base di prove – recitava la nota, ora scomparsa dalla prima pagina del sito internet dell’OMS – il consumo di carne rossa provoca cancro negli esseri umani. Questa associazione è stata osservata nel tumore del colon retto, del pancreas e della prostata».

Immediatamente Umberto Veronesi nel corso di un’intervista, ancora scaricabile, esultava affermando che per la prima volta la massima autorità internazionale in tema di cancro ha messo nero su bianco che la carne può causare diversi tumori. Secondo le conclusioni redatte dai ventidue esperti che compongono il board di valutazione, si afferma che «ci sono evidenze sufficienti a lasciar pensare che il consumo di carni processate causi il tumore del colon-retto».

Che siano di bue, vitello, manzo, maiale o pecora, cinquanta grammi di carne rossa al giorno aumenterebbero del 18% il rischio di sviluppare cancro.
In modo molto equilibrato l’AIRC (Associazione Italiana Ricerca sul Cancro), ha risposto alla domanda che tutti si sono posti, ossia se il consumo di carne lavorata è cancerogeno quanto il fumo di tabacco o l’amianto, affermando che le carni lavorate sono state classificate nella stessa categoria come causa di cancro.

Questo però non significa che siano ugualmente pericolosi.
Le classificazioni riportate dalla IARC descrivono la forza dell’evidenza scientifica circa un determinato agente di essere una causa di cancro, piuttosto che valutare il livello di rischio.
L’allarme che, in pochi giorni, aveva fatto crollare le vendite nelle macellerie, improvvisamente si sgonfia: nessuna prova è stata messa nero su bianco.

«Sì, ci sono dei rischi ma i risultati finali dello studio, pubblicato sulla rivista Lancet Oncology, saranno resi noti soltanto a metà del 2016», smorza le polemiche Kurt Straif, responsabile del Programma monografie dello IARC.
Un «allarme ingiustificato» anche secondo il ministro della Salute Beatrice Lorenzin. «Come si fa a dire che ci sono rischi?
Noi lo studio non lo abbiamo. Su Lancet abbiamo visto soltanto la sintesi – sottolinea il ministro – Abbiamo chiesto di avere il testo completo, ci hanno detto che non sarà pronto prima di sette-otto mesi».

Intanto l’allarme è stato lanciato e, nel dubbio, molti consumatori  hanno lasciato bistecche, lombate e prosciutti sui banconi dei supermercati. «I prodotti commercializzati in Europa non contengono le sostanze presenti nei lavorati analizzati dall’OMS», incalza l’Ordine dei medici veterinari di Milano.

 

«Lo studio dell’Organizzazione mondiale della sanità ha preso come campione insaccati contenenti sostanze per la conservazione e il fissaggio di gusto e sapidità non presenti nell’Ue e, soprattutto, in Italia. L’analisi è stata svolta interamente su carni provenienti dall’America, dove gli standard di controllo sono minori.
In Europa, invece, le verifiche effettuate sugli alimenti sono tra le più scrupolose al mondo». Le dosi di tali sostanze e i tempi di esposizione presi in esame «implicano un consumo pressoché quotidiano e massivo di carni rosse lavorate, nettamente superiori rispetto alla media europea e italiana».

Il consumo di carne degli italiani con 78 chili a testa – dati Coldiretti – é ben al di sotto di Paesi come gli Stati Uniti (125 chili a persona) o Australia (120 chili), ma anche dei cugini francesi (87 chili). Inoltre, dal punto di vista qualitativo, la citaliana è meno grassa e la trasformazione in salumi avviene naturalmente solo con il sale senza l’uso dell’affumicatura.
É fuor di dubbio che le carni suine conservate vantano antichissime radici nella storia della conservazione in Italia: in un sito archeologico etrusco vicino Mantova (risalente al V secolo a.C.) sono stati ritrovati numerosi resti di ossa di animali di cui il 60% appartenenti alla specie suina. Nella produzione italiana, grazie a un continuo miglioramento, si è ottenuto addirittura un equilibrio tra il contenuto di grassi saturi e insaturi.

Nella maggioranza dei prodotti, grassi preziosi come quelli insaturi sono passati dal 30% a oltre il 60% dei grassi totali, il contenuto di nitrati si è molto ridotto, fin quasi ad annullarsi, mentre i nitriti sono praticamente assenti. Va poi considerata la la regionalizzazione delle tradizioni alimentari che non può essere stravolta. Giovanni Picuti in un articolo pubblicato sulla rivista dell’Accademia Italiana della Cucina “Civiltà della Tavola – Dicembre 2015” scrive: «Nel genoma degli umbri c’è la passione per la ciccia.
Porchetta, fegatelli e guanciale fanno parte delle nostre tradizioni alimentari.
L’umbro, senza sbocchi al mare, sta al prosciutto come il cinese al riso e il tedesco alla birra. Non sarà la sospetta ricerca dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (e nemmeno i protocolli dell’Expo finanziato dalle multinazionali) a farlo desistere dalla polpa».

É bene, infine, ricordare che l’Italia resta ancora saldamente in testa alla classifica delle nazioni più longeve e che l’Umbria è, a sua volta, una delle regioni italiane più longeve.

Personalmente, sono in linea con Carmine Pinto, Presidente dell’Associazione italiana di Oncologia Medica (AIOM), che ha ribadito che l’OMS dice cose che erano già in gran parte emerse da studi precedenti e che non è in questione il divieto di consumare carne: come per tutti gli alimenti, serve equilibrio. Il messaggio che dobbiamo dare deve essere chiaro.
La carne rossa va consumata con moderazione e dobbiamo tornare alla dieta mediterranea, che ha dimostrato di poter diminuire il rischio di tumore. E magari anche a una dieta mediterranea regionalizzata.