Con la sentenza n. 4869/2014 la Corte di Cassazione ha nuovamente cambiato i riferimenti: l’onere della prova della compatibilità dell’attività “altra” svolta dal lavoratore durante l’assenza per malattia spetterebbe, in giudizio, al datore di lavoro e non al lavoratore
Una delle questioni più controverse che spesso si discute nelle aule giudiziarie è l’utilizzo indebito da parte del lavoratore del diritto di assentarsi dal lavoro per malattia, per dedicarsi ad altra attività (remunerata e non) anziché per curarsi.
Si tratta di un fenomeno diffuso che tante volte ha sollecitato interventi legislativi per il controllo dello stato di malattia del lavoratore. Sul piano del rapporto di lavoro, poi, il comportamento del lavoratore potrebbe dar luogo a provvedimenti disciplinari da parte del datore di lavoro (si ritiene che questo comportamento possa essere sanzionato anche con il licenziamento).
La giurisprudenza ha assunto una posizione molto prudente ed equilibrata.
Difatti, secondo i giudici della Suprema Corte, non si può aprioristicamente impedire al lavoratore lo svolgimento di qualunque attività, ludica o lavorativa, in costanza di malattia, dovendo verificarsi piuttosto, caso per caso, se il lavoratore ha agito correttamente (ossia se ha rispettato i doveri di buona fede e correttezza).
Lo svolgimento di altra attività, anche lavorativa, può infatti costituire indice della simulazione fraudolenta dello stato di malattia ogni qualvolta l’attività svolta sia, di fatto, incompatibile con la patologia certificata dal medico per giustificare l’assenza. In caso contrario, il comportamento del lavoratore potrebbe essere del tutto lecito.
Il discrimine fra comportamento legittimo o illegittimo è dato, appunto, dal tipo di attività svolta e dal tipo di patologia denunciata dal lavoratore per giustificare l’assenza dal lavoro. Se v’è assoluta incompatibilità si può presumere che la malattia attestata dal lavoratore sia frutto, in realtà, di una simulazione fraudolenta. Ma anche in caso di accertato stato di malattia del lavoratore, il comportamento di chi, durante l’assenza dal lavoro, si dedichi ad altra attività, lavorativa o ludica che sia, può configurare un grave inadempimento contrattuale. Difatti in questi casi il lavoratore, anche se davvero malato, assume a ben vedere una condotta contraria al dovere di curarsi e tale da incidere negativamente sulle prospettive di guarigione, venendo meno in tal modo al dovere di ripristinare le proprie energie psicofisiche al fine di garantire al datore di lavoro la ripresa della prestazione lavorativa.
La giurisprudenza ha in tal modo enucleato una linea interpretativa tendente a garantire all’imprenditore che il lavoratore non utilizzi in modo pretestuoso il diritto di assentarsi dal lavoro previsto dall’art. 2110 c.c., ovvero che con la sua condotta non comprometta la guarigione, senza però costringere inutilmente il lavoratore alla totale inattività qualora non vi siano motivi ostativi.
Il principio della Corte di Cassazione è quindi, in sintesi, che tale comportamento può costituire indice di violazione dei doveri generali di buona fede e correttezza e degli specifici obblighi di fedeltà e diligenza del lavoratore subordinato, sia quando l’attività svolta all’esterno sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando una fraudolenta simulazione, sia quando la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio (in questi termini si esprime, fra le altre, la sentenza n. 14046/2005 della Suprema Corte). Difatti anche il mero pericolo di aggravamento delle condizioni di salute o di ritardo nella guarigione del lavoratore può configurare un grave inadempimento, con conseguente pregiudizio all’interesse del datore di lavoro, risultando violati gli obblighi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto di lavoro (Cass. Lav. 19 dicembre 2006 n. 27104; Cass. Lav. 25 novembre 2013 n. 26290).
Ne consegue quindi che, in presenza di questi presupposti, il datore di lavoro può reagire alla condotta illegittima del lavoratore assumendo provvedimenti disciplinari all’esito della procedura prevista dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori.
In caso di controversia giudiziaria, la giurisprudenza ha sempre affermato, poi, conformemente ai principi regolatori dell’onere della prova, che in presenza della contestazione datoriale dello svolgimento di altra attività lavorativa in costanza di malattia spetta semmai al lavoratore provare la compatibilità di tale attività e la sua inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psicofisiche (Cass. Lav. 21 ottobre 1991 n. 11142; Cass. Lav. 13 aprile 1999 n. 3647; Cass. Lav. 19 dicembre 2000 n. 15916; Cass. Lav. 25 novembre 2013 n. 26290 cit.).
Tuttavia con una recente sentenza (n. 4869/2014) la Corte di Cassazione ha ribaltato questo principio, ritenendo che l’onere della prova spetterebbe, in giudizio, al datore di lavoro e non al lavoratore. La decisione della Cassazione solleva molteplici perplessità, tanto più che il datore non è a conoscenza della patologia del lavoratore (coperta dalla privacy) e quindi soltanto in un momento successivo potrà verificare se essa risulta incompatibile con l’attività svolta dal lavoratore durante l’assenza dal lavoro.
Qualora questa “svolta” della Cassazione fosse confermata dalla successiva giurisprudenza, il datore di lavoro dovrà prestare molta attenzione prima di procedere alla sanzione disciplinare del comportamento del lavoratore, valutando attentamente tutti gli elementi emersi per non incorrere in una decisione sfavorevole in sede giudiziaria.