Antonia Autuori: «Il mio impegno nella promozione della cultura del dono»

In tre anni la presidente della Fondazione Comunità Salernitana si è spesa per rafforzarne il radicamento sul territorio, sostenendo diversi progetti e bisogni emersi dal basso

 

Presidente Autuori, l’ultimo Rapporto sul welfare ha fatto emergere quanto il contributo del terzo settore sia oggi considerevole nel modello sociale italiano. In particolare vivono una stagione da protagoniste le Fondazioni di comunità. Quella da lei presieduta come si è evoluta negli ultimi anni di crisi e quali obiettivi è riuscita a centrare per il territorio salernitano?
Proprio a Salerno, sede della prima fondazione di comunità costituita nel Sud, in una iniziativa congiunta del Comitato per l’imprenditoria femminile della CCIAA presieduto da Angela Pisacane e della Fondazione della Comunità Salernitana, è stato presentato il terzo rapporto sul Secondo Welfare in cui si sottolineava l’importanza dell’intervento privato e del volontariato fatto anche di tantissime associazioni e cooperative nel fornire servizi complementari sì, ma indispensabili alle politiche di welfare messe in campo dal nostro Paese.
In questo quadro di soggetti non pubblici, negli ultimi anni stanno assumendo un ruolo sempre più importante le Fondazioni di Comunità, cui è dedicato un intero capitolo a cura di Lorenzo Bandera.
In particolare la Fondazione della Comunità Salernitana ha iniziato ad operare nel 2009 proprio in concomitanza dell’inizio della crisi, sollecitando e sostenendo attività e progetti innovativi sul nostro territorio. Le organizzazioni di terzo settore (beneficiari delle attività della Fondazione) hanno saputo accettare la sfida passando dalla richiesta di un contributo economico tout court alla formulazione di progetti funzionali alla realizzazione di azioni concrete di “secondo welfare”.
Non è sempre facile far comprendere che la fondazione non è un “bancomat” ma che è un “motore” della comunità e quindi per funzionare deve essere a sua volta alimentato (di idee, di passione, ma anche di fondi!) e per questo siamo anche concentrati sull’incremento del patrimonio (è grazie alla rendita del patrimonio che possiamo finanziare progetti). Nove anni non sono molti per strutturare l’assetto di un organismo destinato a durare nel tempo, ma sicuramente oggi la Fondazione è meglio nota ed è diventata un riferimento anche per chi, non conoscendo le nostre realtà, vuole mettere in atto iniziative sociali sul nostro territorio e ha bisogno di riferimenti sicuri.

La capacità di creare rete è di fondamentale importanza per le fondazioni di comunità. Ha incontrato soggetti e persone disponibili lungo il suo percorso?
Personalmente ho sempre creduto che da soli si riesce a fare poco e che l’incontro di persone e realtà diverse non può che aumentare le sinergie e amplificare i risultati.
E questo è ancora più vero quando si parla di Fondazioni di comunità, nate per superare il concetto di carità e trasformarlo in sostegno a progetti e bisogni che emergono dal basso in maniera organica.
Sicuramente i 63 soggetti fondatori hanno creduto in questo obiettivo, anche se con il passare del tempo e il progredire della crisi non tutti hanno potuto continuare a sostenerci.
L’esempio più significativo però è sicuramente la realizzazione di un centro diurno e residenziale per persone disabili a Sala Consilina.La costruzione (4 piani per un totale 3.200 mq circondata da un oliveto) – dalla posa della prima pietra all’inaugurazione del centro diurno al pian terreno – è durata solo 3 anni. L’iniziativa è stata resa possibile grazie alla determinazione dell’associazione “Una Speranza”, ma anche alle sinergie che grazie alla Fondazione sono state messe in atto con la Fondazione Cariplo, la Fondazione con il Sud e tanti privati. Un peccato che, invece, gli istituti di credito del territorio non abbiano capito l’importanza di un simile progetto. Un lavoro fatto dalla comunità per la comunità in cui fondamentale è stata la componente del dono e della fiducia e che ha anticipato anche il dettato normativo previsto dalla legge 112/2016sul dopo di noi.

Dal suo osservatorio quali sono i bisogni sociali più diffusi e complessi?
I bisogni del nostro territorio sono numerosi, variegati e diversificati anche a causa dell’estensione territoriale della provincia. Moltissimi dei progetti che ci vengono presentati riguardano i bisogni legati alle disabilità e all’integrazione dell’assistenza fornita dal SSN, l’abbandono scolastico, il sostegno all’autoimprenditorialità (microcredito), l’integrazione di immigrati, ma ci vengono presentati anche progetti di restauro di opere d’arte particolarmente significative.

Cosa manca per fare di più?
Sul nostro territorio esistono tantissime organizzazioni non profit che riescono a realizzare grandi progetti con piccole risorse. Spesso però reperire anche quantità di denaro limitate può essere difficilissimo. La Fondazione di Comunità serve proprio a questo, a mettere in contatto le organizzazioni e i singoli donatori permettendo così la realizzazione di sogni. Bisogna diffondere sempre di più e meglio la cultura filantropica tra di noi. Arrivare ad ognuno dei 158 comuni della nostra provincia e ai loro abitanti è la vera sfida. Questo è quello che abbiamo incominciato a fare coinvolgendo i soggetti pubblici, molti dei quali non ci conoscevano e al contempo promuovendo la cultura del dono come percorso ed esperienza di cittadinanza attiva. La strada da fare però è ancora molto lunga.

Lei è anche una donna di impresa. In azienda la cultura del welfare è di certo aumentata, forse non del tutto nella percezione dei beneficiari. Quali sono le principali ricadute positive? Oggi è possibile diffondere e realizzare il sogno di Adriano Olivetti di una economia civile?
La cultura del welfare sta sicuramente aumentando nelle imprese, sia per le politiche del lavoro che prevedono forme alternative di contrattazione di secondo livello, sia grazie alla importanza del dibattito aperto sul genere e alla presenza di un numero sempre maggiore (anche se esiguo rispetto alle percentuali di altri paesi) di lavoratrici e di donne in posti chiave. Venendo poi dall’esperienza di una impresa storica, per me la differenza tra azienda e famiglia è sempre stata molto sfumata e quindi il welfare nell’impresa è un fattore implicito. Adriano Olivetti aveva una visione globale della società e l’impresa era un attore fondamentale e imprescindibile dello sviluppo della comunità nella quale operava, l’azienda per lui non aveva motivo di essere se non legata al benessere del territorio e delle persone che vi abitavano.
Oggi ci sono esempi di imprenditori innovatori come Adriano Olivetti in varie parti del mondo, anche in Italia. Certo,la globalizzazione non aiuta troppo perché sempre più imprese vengono gestite da gruppi finanziari disposti a delocalizzare a discapito dei territori e delle comunità che vengono abbandonate. La capacità degli imprenditori e dei manager di essere leader e leader visionari è fondamentale a mio avviso per costruire una società migliore.