Il commento alla sentenza n. 578 del Tribunale di Ravenna: no a interpretazioni restrittive della norma
La pandemia di Covid-19 ha generato enormi danni e nuovi problemi in tutti gli ambiti, in particolare in quello sanitario, e una conseguente generale e diffusa crisi economica. Per questo sono stati varati dal legislatore, in tutti i settori, provvedimenti posti a presidio dei fondamentali interessi sociali e volti anche a mantenere la coesione sociale ulteriormente indebolita dalla pandemia. Tra di essi assume particolare rilevanza, per la delicatezza della questione trattata, il contenuto del d.l. 18/2020 che, all’art. 46, ha introdotto il temporaneo “blocco” dei licenziamenti per giustificato motivo, ora prorogato con il d.l. 41/2021, “decreto sostegni”, al 30 giugno 2021 e fino al 31 ottobre 2021 per le aziende che fruiranno dei trattamenti di integrazione salariale. In buona sostanza il legislatore ha, sia pur temporaneamente, limitato la libertà di iniziativa economica della impresa pur tutelata dalla Costituzione all’art. 41. Ciò ha comportato e comporta notevoli difficoltà sul piano sia economico, sia gestionale da parte delle imprese che si trovano anche a dovere dare una interpretazione più o meno restrittiva al “blocco” dei licenziamenti previsti dal d.l. 17/3/2020 n.18 (e successive modifiche) che, all’art. 46, prevede che «il datore di lavoro indipendentemente dal numero dei dipendenti non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge 15/7/1966 n. 604».
La sentenza n. 578 del 7.1.2021 emessa dal Tribunale di Ravenna – sezione lavoro – assume un importante significato perché è la prima pronunciata, insieme ad altra ordinanza del Tribunale di Roma del 26.1.2021 relativa al licenziamento di un dirigente, durante il blocco dei licenziamenti.
Il Fatto.
Un dipendente di una società a responsabilità limitata era risultato inadatto alla mansione alla quale era stato adibito a seguito di una visita medica di idoneità. Per tale motivo la società aveva provveduto, durante la moratoria prevista dalla normativa emergenziale covid-19, ad intimare il licenziamento per giustificato motivo, ovvero per sopravvenuta inidoneità e quindi impossibilità ad eseguire la mansione di lavoro assegnatagli. Il lavoratore impugnava il licenziamento con ricorso, chiedendone la nullità e la reintegra e il risarcimento del danno, sostenendo che il licenziamento intimato rientrava nel blocco previsto dall’art. 46 d.l. 18/20. Si costituiva il datore di lavoro sostenendo la tesi secondo cui il legislatore con il d.l. succitato non intendeva vietare tale tipo di licenziamento, ma solo quei recessi unilaterali connessi alla contrazione delle attività imprenditoriali dovute alle misure restrittive necessarie per la protezione sanitaria covid-19. Il licenziamento per inidoneità alla prestazione era del tutto estraneo alla norma in questione, in quanto non ricollegato alla emergenza sanitaria. Il datore di lavoro forniva così una interpretazione restrittiva al d.l. 18/20.
Di diverso avviso è l’organo giudicante, che invece, ha ritenuto che anche tale licenziamento rientrasse nel “blocco”, in quanto ai sensi dell’art. 42 del d.l. 81/2008 il datore di lavoro, nel caso di sopravvenuta inidoneità alla mansione, ha l’obbligo di tentare il repechage in mansioni diverse, anche di rango inferiore, ricorrendo a misure organizzative volte al mantenimento del posto di lavoro. Questo però, allo stato, ancora non è possibile e quindi il datore di lavoro avrebbe dovuto attendere il superamento della crisi economica dovuta alla pandemia per agire sulla riorganizzazione aziendale necessaria alla verifica di un possibile repechage del lavoratore così come statuito dall’ordinamento. Il giudice in sentenza riconduce la sospensione del licenziamento di cui all’art. 46 d.l. 18/20 tra le norme imperative, la cui violazione produce la nullità del licenziamento con conseguente diritto del lavoratore alla reintegra nel posto di lavoro e al risarcimento del danno.