Rischio di credito inesistente per molte imprese che avrebbero finanziato attività che non rispettano i criteri indicati dalla normativa. Fondamentale che Confindustria vigili sulle contestazioni del Fisco che, inevitabilmente, colpiranno non solo le imprese scorrette
Sul bonus Ricerca e Sviluppo e, in particolare, sulle contestazioni e le revoche poste in essere recentemente dall’Amministrazione Finanziaria, Confindustria dovrà prendere posizione netta. Secondo gli ultimi dati resi disponibili dall’Istat, in termini di spesa in R&S «l’Italia si colloca in una posizione intermedia (13° posto) ed è superata non solo dagli investitori privati storicamente più importanti, quali i paesi dell’Europa settentrionale, ma anche dai nuovi paesi dell’Ue».
A fare da contrappeso all’impasse del nostro Paese, il Legislatore ha reso disponibili una serie di incentivi con l’obiettivo di supportare – e rendere più sostenibili finanziariamente – gli investimenti in R&S delle imprese; si veda, ad esempio l.n. 160/2019, così come integrata dalla l.n. 178/2020, che ha distintamente disciplinato il sostegno, appunto, non solo alla R&S, ma anche all’innovazione tecnologica e al design e all’innovazione estetica.
Tuttavia, la recente ripresa delle attività di accertamento da parte dell’Amministrazione Finanziaria sta trasformando, suo malgrado, questo interessante scenario di incentivo alla ricerca in un vero e proprio dramma imprenditoriale, i cui attori protagonisti sono la disinformazione (di cui spesso si approfittano operatori non trasparenti), la sovrapposizione spasmodica, a volte contraddittoria, di interventi di prassi, la scarsa attitudine alla collaborazione interministeriale, un apparato normativo del quadro sanzionatorio non adeguato alle circostanze e una giurisprudenza a volte altalenante negli orientamenti.
Va senz’altro premesso che l’agevolazione non è alla portata di tutte le imprese, soprattutto le micro e piccole realtà, atteso che difficilmente queste avranno sufficienti risorse da investire non tanto nell’ambito delle accresciute competenze personali, ma nel progresso scientifico e tecnologico dello scibile generale, e questo soprattutto nel periodo di post pandemia. Le piccole realtà rischiano quindi di essere trascinate da consulenti poco trasparenti verso un uso improprio dello strumento. Alla data del 30 giugno 2021, infatti, gli atti di recupero notificati dall’Agenzia delle Entrate nel quinquennio 2017/2021 riguardanti il credito d’imposta R&S ammontano a 804 e i processi verbali di constatazione notificati a 164; non pochi.
Le contestazioni vertono prevalentemente sulla constatazione che il bonus sia stato fruito su attività corrispondenti all’utilizzo di conoscenze già presenti sul mercato e non sulla scorta di progressi generali in campo scientifico e tecnologico. Altre volte il Fisco si concentra sulla natura delle spese, che avrebbero caratteristiche diverse da quelle sintetizzate nel c.d. Manuale di Frascati.
Infine, spesso l’Agenzia entra nel merito dei presupposti fondanti dell’attività di R&S per l’impresa; in tale ambito viene contestato il fatto che il progetto implementato si presenti lacunoso nella parte in cui descrive le incertezze di tipo scientifico o tecnologico fronteggiate dall’impresa nella realizzazione di un investimento, per le quali si è resa necessaria una preliminare attività di ricerca e sviluppo.
Di fronte alle contestazioni sopra evidenziate, il quadro sanzionatorio che si prospetta davanti all’impresa è tutt’altro che rassicurante. L’Agenzia, infatti, lungi dal tener conto delle incertezze definitorie e delle evidenti complessità tecniche collegate alla corretta fruizione del bonus, tende a classificare le attività di recupero nell’alveo dei c.d. “crediti inesistenti”. Si tratta di una fattispecie disciplinata dall’articolo 13 comma 5 del DLgs n. 471/1997, laddove il Legislatore dispone l’irrogazione di una «…sanzione dal cento al duecento per cento della misura dei crediti».
Per tali contestazioni, inoltre, non è consentita la definizione agevolata di cui agli articoli 16, comma 3, e 17, comma 2, del D.Lgs. n. 472/1997. Si discorre di “credito inesistente” quando sia possibile riscontrare entrambi i seguenti requisiti:
• il credito è privo, in tutto o in parte, dei suoi presupposti costitutivi;
• la sua inesistenza non può essere riscontrata attraverso controlli automatizzati (articolo 36 bis DPR n. 600/1973 e articolo 54 bis DPR n. 633/1972) o mediante controlli basati sul riscontro formale della documentazione (articolo 36 ter DPR n. 600/1973).
L’articolo 27, comma 16, del DL n. 185/2008 dispone che gli avvisi di recupero di credito d’imposta possono essere notificati, in tali casi, entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello del relativo utilizzo. Quanto sopra spaventa di suo; ma il quadro va completato con il riferimento all’art. 10 quater del D.Lgs. n. 74/2000, secondo cui è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a 6 anni chiunque non versi le somme dovute, utilizzando in compensazione crediti inesistenti per un importo superiore ad euro 50.000. La fattispecie, infine, integra i presupposti della responsabilità amministrativa delle società prevista da D.Lgs. n. 231/2001.
Fin qui il monito per scongiurare l’utilizzo improprio del bonus; Confindustria però dovrà tutelare le imprese contro un utilizzo improprio dello strumento dell’accertamento da parte del Fisco. L’Agenzia fonda molti recuperi sulle violazioni dei precetti del Manuale di Frascati, vademecum internazionale sulla Ricerca.
Molti ignorano, però, che del Manuale non esiste nemmeno una traduzione ufficiale in lingua italiana. A ciò si aggiunga che, nell’ambito delle attività di accertamento, il Fisco dovrebbe (laddove la norma parla di mera facoltà per l’Ufficio) necessariamente avvalersi del supporto di consulenti del Mise, attesa la totale incompetenza dei funzionari delle Entrate nella materia di cui si discorre. Sotto il profilo sanzionatorio, si ritiene del tutto incongruente parlare di “credito inesistente”, laddove nell’ambito dei controlli il Fisco abbia riscontrato l’esistenza di una effettiva attività posta in essere dall’impresa, la cui spesa è avvalorata dall’apposita certificazione del revisore incaricato. In particolare, laddove l’Agenzia riscontrasse l’inesistenza del parametro della “novità” della R&S, potrebbe al minimo riconoscere la spesa come “innovazione tecnologica”, di cui all’articolo 3 del citato DM 26 maggio 2020.
Classificare la spesa come “innovazione tecnologica” e non come “ricerca e sviluppo” aiuterebbe il Fisco a ritenere che, semmai, ci si trovi in una fattispecie di utilizzo di credito non spettante (quantificato nella maggiore percentuale di agevolazione fruita) piuttosto che nella più pericolosa ipotesi di credito inesistente.