In uno studio un po’ datato (marzo 2008) ma sempre valido l’Associazione Industriali ha calcolato diversi effetti di una riduzione del cuneo per 9 miliardi, analizzando tre ipotesi: una riduzione del cuneo solo per i lavoratori; una solo per le imprese e una mista (con il 60% al lavoro e il 40% alle imprese). Ebbene, quella che produce i maggiori effetti espansivi sulla crescita e l’occupazione è proprio quella concentrata sulla riduzione del costo per le imprese
Uno dei temi su cui si discute all’interno del progetto di delega fiscale è, senz’altro, quello della corretta distribuzione del carico tributario fra imprese e cittadini.
L’argomento – come spesso capita per i temi fiscali – divide e anima il dibattito fra gli interlocutori.
Da qualche tempo, la posizione di Confindustria è inequivocabilmente chiara nel sostenere che, ad esempio, sul previsto taglio al cosiddetto cuneo fiscale, ossia il differenziale fra quanto un’impresa paga per un proprio lavoratore e quello che quest’ultimo percepisce in busta paga, l’ago della bilancia dovrebbe pendere maggiormente a favore delle imprese piuttosto che dei contribuenti.
L’impressione, comunque, è che a volte tale posizione venga sostenuta non con la sufficiente enfasi, probabilmente col timore di sentirsi dire che, in un Paese in cui le famiglie non arrivano alla fine del mese, sostenere la posizione delle imprese piuttosto che quella delle famiglie sia eticamente inappropriato.
É questo il punto: siamo sicuri che sostenere la posizione delle imprese non equivalga a sostenere, indirettamente, anche le famiglie e, quindi, i lavoratori?
Seguendo le indicazioni del Centro Studi di Confindustria, le imprese manifatturiere italiane hanno compresso i costi di produzione, i margini di profitto e i prezzi; nello stesso tempo, però, hanno migliorato la qualità dei prodotti, spingendo sul recupero di competitività e contribuendo, così, al passaggio in surplus della bilancia commerciale. Da un deficit di 30 miliardi nel 2010, infatti, questa è arrivata ad un surplus di 30 miliardi nel 2013.
Questa analisi, dunque, va letta nel senso che la competitività delle imprese esportatrici ha, di fatto, attenuato sensibilmente lo stato di recessione del nostro Paese.
Questo stesso Paese, comunque, non sembra saper dare le opportune risposte al sistema imprenditoriale che, da anni, si sta interrogando su quali politiche economiche interne possano adeguatamente supportare lo sforzo che le imprese stanno mettendo in atto. In barba ai sacrifici che il sistema imprenditoriale sta perseguendo, infatti, il nostro è ancora il Paese dei gravami fiscali, dell’alto costo dell’energia e dall’inspiegabile peso della burocrazia. Se solo si riducessero questi oneri alla media dell’eurozona, il risultato sarebbe quello di aumentare di molto la nostra competitività e, questo è ciò che interessa, la crescita e l’occupazione.
Questo, tra l’altro, avverrebbe non solo tramite la funzione delle esportazioni delle imprese internazionalizzate, ma anche per i maggiori investimenti, interni ed esteri, indotti sulla scorta di una crescita di iniziative imprenditoriali essenziali per aumentare produttività e posti di lavoro.
Ridurre il peso fiscale (43,8% del PIL), è vero, non si può, o almeno non nei tempi in cui ci si aspetterebbe. Tuttavia, nel momento delle scelte selettive in termini di distribuzione delle risorse, queste vanno orientate nel senso della massima efficacia.
Confindustria da tempo sostiene che per dare una spinta alla crescita, alla competitività e all’occupazione bisogna ridurre il cuneo fiscale e contributivo che, in tutte le sue componenti, rappresenta il 52,9% del costo del lavoro. Un dato di molto al di sopra la media europea.
Ma ridurlo come?
Nel 2007 il governo Prodi tagliò il cuneo fiscale di 5 punti percentuali per 7,5 miliardi, con una ripartizione del 60% sulle imprese e del 40% sul lavoro. Fu ridotta l’Irap sul costo del lavoro delle imprese e ridisegnata la curva Irpef per i lavoratori. Gli esiti di tale manovra, però, ebbero un effetto molto limitato per i lavoratori dipendenti, soprattutto perché fu distribuita su tutti i contribuenti in forza delle minori aliquote Irpef.
Un provvedimento analogo nei nostri giorni, quindi, sarebbe ancora meno efficace, in quanto l’aumento della domanda interna per una riduzione generalizzata delle aliquote verrebbe molto attenuato dalle scelte di risparmio precauzionale delle famiglie, pressate dalle incertezze occupazionali.
Confindustria, in uno studio alquanto datato (marzo 2008) ha, invece, calcolato diversi effetti di una riduzione del cuneo per 9 miliardi, cifra analoga a quella chiesta all’attuale Governo. Nello studio vengono analizzate tre ipotesi: una riduzione del cuneo solo per i lavoratori; una solo per le imprese e una mista (con il 60% al lavoro e il 40% alle imprese).
Ebbene, quella che produce i maggiori effetti espansivi sulla crescita e l’occupazione è proprio quella concentrata sulla riduzione del costo per le imprese. L’effetto cumulato triennale sarebbe dello 0,92% del Pil, dell’1,15% dei consumi e dello 0,55% dell’occupazione. Viceversa, un taglio della stessa entità concentrato sulle famiglie avrebbe un impatto dimezzato.
Il rischio, però, è che il timore di venire bollati come chi cerca continuamente di tirare acqua al proprio mulino obblighi anche Confindustria a non sostenere con l’opportuna veemenza una politica che, a conti fatti, appare l’unica in grado di produrre effetti positivi (quelli più sensibili) anche sull’incremento dell’occupazione.
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