Il lockdown da COVID-19 ha fatto sì che aumentasse il numero di persone che hanno trasformato l’isolamento da forzato in volontario
Il rifiuto della società in cui si vive è alla base di comportamenti alternativi. Alcuni anni fa in Giappone è esploso il fenomeno definito Hikikomori, letteralmente stare in disparte, isolarsi. Tale termine è usato per riferirsi a quanti hanno scelto di ritirarsi dalla vita sociale, spesso cercando livelli estremi di isolamento, a causa della grande pressione della società giapponese verso l’autorealizzazione e il successo personale, cui l’individuo viene sottoposto fin dall’adolescenza. Si ritiene che il fenomeno Hikikomori non sia legato esclusivamente alla cultura giapponese. Nel Regno Unito si utilizza la sigla NEET (not in employment, education or training) per indicare i giovani non impegnati in attività lavorative o educative. Negli Stati Uniti il termine adultoscelent tipizza quei giovani adulti che ancora vivono con i loro genitori e che non sembrano avviarsi verso una vita propria, indipendente dalla famiglia.
In Italia opera una associazione (Hikikomori Italia) che sottolinea come nel nostro Paese durante gli anni delle medie e delle superiori si può verificare il cosiddetto fattore precipitante, ovvero un evento chiave che dà il via al graduale allontanamento da amici e familiari. Può essere, ad esempio, un episodio di bullismo o un brutto voto a scuola. Un avvenimento innocuo agli occhi degli altri, ma che contestualizzato all’interno di un quadro psicologico fragile e vulnerabile, assume un’importanza vitale. Il ragazzo comincia a saltare giorni di scuola utilizzando scuse di qualsiasi genere, abbandona tutte le attività sportive, inverte il ritmo sonno-veglia e si dedica a monotoni appuntamenti solitari come il consumo sfrenato di serie TV e videogames. In Italia la sindrome non colpisce solo i maschi ma riguarda anche un discreto numero di hikikomori-femmine, con un rapporto di 70 a 30. Il lockdown ha peggiorato la situazione: è aumentato il numero di persone che hanno trasformato l’isolamento da forzato a volontario. Ma in Giappone è esploso un nuovo e preoccupante fenomeno, quello degli johatsu, o gli evaporati. Tormentati dalla vita quotidiana, migliaia di cittadini giapponesi si lasciano alle spalle le proprie identità per cercare un rifugio nell’anonimato, mettendosi fuori dalla circolazione ufficiale. Ogni anno centomila persone scelgono di sprofondare nell’anonimato, tagliando i ponti con il passato. Tutti individui che decidono volontariamente di abbandonare un contesto di vita che sentono di non poter più gestire. Sembra che all’interno della metropoli di Tokyo ci sia un intero quartiere popolato dagli evaporati. In Giappone questa fuga può essere sorprendentemente facile, sostiene Public Radio International (PRI). Le leggi sulla privacy giapponesi danno ai cittadini una grande libertà nel mantenere segreti i loro movimenti. Soltanto in casi criminali la polizia scava nei dati personali della gente e i parenti non possono consultare i dati finanziari. Per quanto riguarda l’Italia non ci sono, al momento, dati precisi.
Mi permetto però, una breve osservazione personale. Recentemente ho riscoperto la bicicletta per vivere la mia città, Terni. Passando sopra il ponte che attraversa il fiume Nera, ponte Allende, allungo lo sguardo verso una campagna estranea ai ritmi cittadini che sembra tagliare la città in due. Un mondo diverso da cui emergono figure indecifrabili. Per la maggior parte persone non più giovanissime in tuta, scarpe da ginnastica, berretto, occhiali e auricolari che si affannano lungo le sponde. Qualcuno indossa anche la mascherina. Non tutti corrono, qualcuno cammina lentamente, ma nessuno si ferma o parla con un altro. Senza identità e senza sesso. Mi sono convinto che nella mia città ci siano evaporati a tempo, nel senso che questi lungo il fiume vogliono isolarsi per un paio di ore e non essere riconosciuti.
Altrimenti perché il cappello, la mascherina e gli occhiali scuri all’imbrunire mentre si cammina da soli lungo un fiume?