Abbiamo chiesto all’economista Francesco Daveri, professore di macroeconomia all’Università Bocconi, che tipo di crisi aspettarci e come affrontarla: «L’Italia da sola farà fatica a reggere l’urto. Per questo è servito che la Bce predisponesse – dopo qualche incertezza – un ulteriore paracadute di 750 miliardi di acquisti di titoli per iniettare ulteriore liquidità nelle banche. E poi ci vorrà un intervento Ue che coniughi il supporto alle economie colpite dall’emergenza sanitaria con il mantenimento di un orizzonte di sostenibilità del debito»
Il Centro Studi di Confindustria, nel rapporto reso noto lo scorso 31 marzo, prevede un calo del PIL del 10% nel secondo trimestre rispetto a fine 2019 e per il 2020 del 6%, ma solo se la crisi sanitaria si arresterà entro maggio. Che tipo di crisi economica dobbiamo aspettarci per l’Italia?
Le crisi possono essere descritte con due lettere dell’alfabeto: la V e la U. Quella del 2008-09, successiva al fallimento di Lehman Brothers, fu una crisi a V: un calo rapido e una rapida ripartenza. Fu una crisi a V perché nel post Lehamn ad essere colpite furono le aziende di maggiore successo (quelle esportatrici e attive sui mercati internazionali). Queste imprese furono capaci di riprendersi rapidamente. Durante la crisi del 2011-12, l’Italia passò in mezzo a una crisi a U, con un calo meno drammatico inizialmente ma molto più duraturo. Per uscirne ci volle un lungo periodo di stagnazione e la ripresa arrivò solo nel 2015: il Pil seguì una lettera U. La ragione della U è che la crisi fu una crisi di tanti, di tante aziende attive nel mercato interno, più piccole e più escluse dal credito che faticarono a riprendersi.
E stavolta cosa accadrà? Dobbiamo sperare che sia una V. Per ora abbiamo visto (lo hanno mostrato i dati del Centro Studi Confindustria) un crollo in marzo della produzione industriale che porterà a una notevole riduzione del Pil, soprattutto nel secondo trimestre dell’anno. Ma se il forte sistema industriale di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna non sarà intaccato in questi mesi di emergenza sanitaria, la ripartenza potrebbe essere rapida come nel 2009. Quel che è sicuro è che i primi tre mesi sono stati certamente meno impattati rispetto ai mesi primaverili perché gennaio e la prima parte di febbraio sono stati mesi di crescita, con cali di ricavi e fatturato ristretti per lo più alla filiera del turismo (che è pure importantissima per l’Italia) e agli acquisti di beni durevoli. Ma poi è arrivato il lockdown dall’11 marzo in poi, con un brusco e più generalizzato calo dell’attività economica che potrebbe arrivare alle due cifre percentuali nel secondo trimestre (rispetto ai numeri dell’anno precedente).
Per la ripartenza economica saranno fondamentali le scelte tanto del nostro esecutivo, quanto dell’Europa. Le ulteriori manovre del governo italiano in che direzione è indispensabile vadano? Quanto, invece, è necessario che la risposta dall’Europa includa gli Eurobond? E l’intervento della BCE?
Con i suoi primi due decreti il governo italiano ha predisposto un paracadute di redditi (ancora da erogare, veramente) per un totale di circa 45 miliardi. Pochi, rispetto alle necessità delle famiglie (soprattutto i lavoratori autonomi rischiano di perdere una bella fetta di reddito disponibile) e delle aziende (che hanno bisogno di liquidità) e delle banche che hanno bisogno di capitale per sostenere i mancati rimborsi dalle aziende in difficoltà.
L’Italia da sola farà fatica a reggere l’urto. Per questo è servito che la Bce predisponesse – dopo qualche incertezza – un ulteriore paracadute di 750 miliardi di acquisti di titoli per iniettare ulteriore liquidità nelle banche. E poi ci vorrà un intervento Ue che coniughi il supporto alle economie colpite dall’emergenza sanitaria con il mantenimento di un orizzonte di sostenibilità del debito. Perché dopo la crisi poi torneranno anche le agenzie di rating.