Per il sociologo le élite, non solo in Italia, di fronte alla crisi non hanno saputo dare risposte convincenti, salvo ripetere all’unanimità il mantra dell’austerità. Occorre, invece, inventare nuovi meccanismi di prossimità capaci di aiutarci a esercitare l’ascolto dei bisogni veri delle persone
L’equazione di fondo della relazione del presidente Maccauro, all’Assemblea 2016 di Confindustria Salerno è che il benessere economico di un Paese dipende in larga misura dalla qualità degli uomini della sua filiera istituzionale, politica, amministrativa, economica, tanto più validi nel guidare una comunità quanto più capaci di agganciare ciò che crea futuro, nell’interesse generale e non privato. La mancata crescita degli ultimi anni è quindi ascrivibile al nostro scarso capitale umano?
La mancata crescita è legata a tre grandi fattori. Il primo è certamente l’invecchiamento (e la cristallizzazione) del modello che si è andato a definire negli anni nel nostro Paese. Il secondo fattore è rappresentato dalle dinamiche esterne sul piano dei grandi flussi della finanza, dell’ economia e dello spostamento di peso in favore di nuove aree geoeconomiche che sono emerse e che occupano spazi di mercato. Il terzo fattore è costituito certamente dalla debolezza della classe dirigente (di tutte le classi dirigenti) che si trovano oggi ad affrontare con Mappe Mentali ormai datate una realtà del tutto nuova e con la (inconsapevole) tentazione di ricorrere ai modelli del passato, invece che esercitare – con Mappe rinnovate – le tre funzioni fondamentali delle élite che sono quelle dell’Interpretazione (continua), della Proposta e dell’Azione (sempre difficili e rischiose) e della Promozione del Consenso (rispetto a quello che ancora vogliamo raggiungere e diventare). Purtroppo in molti casi – e non solo in Italia – ha finito col vincere il “pensiero gregge” che – di fronte alla crisi – ha visto le classi dirigenti europee nel loro complesso non saper dare risposte convincenti al perché si è verificata la crisi e al come uscire da essa, salvo ripetere all’unanimità il mantra dell’austerità…
Raffaele Cantone di recente ha dichiarato che «esiste una questione morale che investe la classe dirigente del Paese». Anche secondo lei più che di un problema politico si tratta di una falla di
sistema? Risolvibile come?
L’etica è una, ma solo una componente necessaria che taglia trasversalmente ogni tipologia di classe dirigente. Max Weber ricordava alla borghesia anseatica che “la proprietà obbliga” ed essere classe dirigente implica degli obblighi oltre che dare dei privilegi. Ma il nostro Paese ha sempre avuto difficoltà a “farsi borghesia” nel senso pieno del termine, mentre ha allargato enormemente il ceto medio, sostenuto dallo sviluppo economico e via via sempre più secolarizzato e immerso in una frammentazione sociale che è diventata anche frammentazione dei valori e delle convinzioni etiche, perdendo gradualmente di vista la responsabilità verso se stessi e la responsabilità verso gli altri. Ricordo che quando presentammo il primo Rapporto sulla Classe Dirigente al Senato della Repubblica nel 2008 riportai un dato che era effettivamente scioccante: solo il 4% dell’élite italiana (dall’ economia alla politica al sociale) si sentiva pienamente o sostanzialmente identificata con la classe dirigente del Paese. L’orgoglio di appartenere ad un’ élite non trova facilmente posto nella nostra cultura collettiva.
Selezione: la trasparenza è più alta nel privato o nel pubblico?
Il tema del merito risulta difficilmente accettato per il Paese, oltre che per la classe dirigente che assomiglia troppo a quest’ultimo. Esiste l’ansia di poter essere esclusi insieme all’abitudine dell’appartenenza e quindi la competizione spaventa, crea timori e questo si acuisce nelle situazioni di crisi come quella che stiamo vivendo. Va poi sottolineato che non serve tanto mettere l’accento sulla “meritocrazia”, la quale occupa periodicamente i titoli dei giornali quanto piuttosto sulla “meritofilia”: bisogna cioè voler bene al merito, non pensando tanto a come escludere quanto piuttosto a come includere, pur applicando criteri di merito. Quest’ultimo va visto dunque come l’ esercizio di una virtù di servizio e non come l’esercizio di un potere che esclude. Del resto bisogna ricordare che anche gli altri Paesi, non sono il paradiso del merito. De Gaulle ricordava – ed è passato più di qualche anno – come tutti i francesi siano in favore dell’egalitè, ma nel senso che ognuno vuole la sua personale quota di privilegi.
Il testo base di legge sui partiti può essere un nuovo punto di inizio per migliorare la selezione del personale del ceto politico?
La prima reazione è che più che una legge sui partiti servono i partiti! Certo la regolamentazione dei partiti, prevista dalla Costituzione, non è mai stata attuata e certamente sarebbe utile uniformare almeno “al minimo”, principi e comportamenti che devono far parte di ogni organizzazione politica. La politica non si può esercitare rimanendo all’interno dei vari palazzi, salvo perdere progressivamente il contatto con la propria base di riferimento. Serve inventare un insieme di meccanismi nuovi di prossimità che per ora abbiamo perso, ma che devono aiutarci ad esercitare l’azione di “ascolto” della nostra constituency.
Al contrario siamo tutti affannati a rincorrere nuovi leader che si chiudono nei palazzi e che si bruciano in tempi relativamente brevi. Molte volte ci siamo detti – come reazione all’ondata della finanza – che bisogna tornare all’economia “reale” nel senso evoluto del termine: ebbene, dobbiamo saper tornare anche alla società “reale” per poter stare in relazione con i bisogni veri delle persone. Insomma bisogna esercitare le tre funzioni di base della classe dirigente che prima ho ricordato: l’ Interpretazione, la Proposta e l’Azione e il Consenso che ha le sue radici nella conoscenza e nella sintonia con i bisogni oggettivi ma anche emotivi delle persone. La politica si deve basare contemporaneamente sulla razionalità e sulle emozioni, sulla testa e sulla pancia del proprio popolo. E questo richiede di ritornare a camminare tra la gente. Perciò oltre al leader è necessario comunicare un’idea di Paese e un programma, nonché esprimere un’organizzazione adeguata.
Il Censis ha da poco certificato che le porte sociali di accesso sono tutte sbarrate. Il mancato ricambio incide, e quanto, sulla qualità della classe dirigente?
Il ricambio è inutile se non è basato su un percorso di formazione adeguato. Ma questo non può avvenire se abbiamo tagliato i ponti con la società reale. Infatti la parola “formazione” trae in inganno, poiché non si tratta di inventare corsi di vario genere e tipo, dall’università alla post-università sino ai (sin troppi) master di questi anni. Ma serve piuttosto ricreare un vero e proprio cursus honorum (come esisteva in passato) che è fatto in grande parte di affiancamento ad altri membri di classe dirigente, se non proprio straordinari almeno decorosi.
Cosa occorre fare per riavviare il ricambio?
Bisogna che ogni classe dirigente pensi innanzitutto a se stessa e rientri nel ruolo che le compete. In realtà si corre costantemente il rischio di lamentarsi della debolezza della classe dirigente in generale oppure si ritiene implicitamente che siano sempre gli “altri” a dover pensare alla creazione di classe dirigente o ancora si ritiene che basti ricorrere al mercato per trovare le persone giuste.
La verità è che il meccanismo di generazione delle classi dirigenti va rimesso in piedi con responsabilità personale e collettiva, ripartendo dal basso. Naturalmente tutti gli strumenti di comunicazione che abbiamo a disposizione possono essere utili, ma non possono mai sostituire il contatto diretto, il confronto, la discussione. La politica è rapporto con l’altro, che non si esaurisce attraverso una modalità ristretta al virtuale. Il teologo Vito Mancuso, cui avevo chiesto a suo tempo di scrivere una post-fazione al Rapporto sulla Classe Dirigente/2010, evocò un’immagine molto significativa, affermando che la classe dirigente deve ritrovare il ruolo di pontifex cioè quello che aiuta a gettare ponti tra quello che le persone sono e vivono nella vita quotidiana e quello che la classe dirigente può e deve fare (ed essere) per decidere e per orientare i propri Rappresentati.