Enrico Falck: «Evolvere è la parola chiave»

Una società che miri alla stabilità sul lungo periodo deve rafforzare continuamente le attività che portano benefici e solidità e, allo stesso tempo, esplorare nuove opportunità per anticipare i cambiamenti del mercato e posizionarsi per tempo

Il Gruppo Falck non è solo un’azienda ultracentenaria, ma un importante punto di riferimento nella storia dell’imprenditoria italiana anche per la capacità che ebbero i suoi predecessori nel costruire una comunità intorno alla fabbrica. È questo uno dei segreti per resistere nel tempo? Oggi quanto conta per un imprenditore avere uno sguardo civico?

La comunità accompagna da sempre le attività industriali: si tratta di un elemento essenziale, indispensabile. L’impresa nasce e vive nel proprio territorio, utilizza e valorizza al massimo le risorse messe a disposizione, in termini sia di forza lavoro, sia di risorse naturali e, per resistere nel tempo, deve alla fine condividere i frutti del proprio operato.
Non a caso questo principio ispira la nostra attività di produttori di energia da fonte rinnovabile, sin dalle fasi iniziali dello sviluppo di un impianto, in modo che questo venga percepito come un valore aggiunto per l’area nella quale sorgerà.
Dove è possibile cerchiamo di condividere con la comunità locale il beneficio che l’impianto porterà, contribuendo al suo benessere: con la sua partecipazione nella proprietà, oppure promuovendo iniziative volte a soddisfare le esigenze degli abitanti dell’area. La sensibilità civica deve andare di pari passo con l’iniziativa imprenditoriale, le due cose non sono scindibili.

Il cambiamento talvolta è inevitabile. Per il suo Gruppo è stato così. Quanto incide nelle performance positive di una azienda la governance e quali regole concorrono a determinare buone strategie e minori rischi?

Il processo di trasformazione attraverso il quale è passato il Gruppo è un esempio di come si possa cambiare nel profondo la propria attività uscendone rafforzati e con una prospettiva ambiziosa, lungimirante e allo stesso tempo calata nel proprio tempo. Il cambiamento deve essere condotto nei minimi dettagli e questo è possibile solo grazie ad una accurata governance, dove ruoli, responsabilità e processi sono ben definiti. Le strategie e la capacità di valutare i rischi derivano poi da una conoscenza approfondita dei nuovi mercati e settori dove l’azienda si affaccerà. Il processo decisionale aziendale deve essere sostenuto da una governance che permetta ai soggetti delegati di operare in autonomia, assumendosi piena responsabilità delle proposte sia strategiche sia operative, e agli organi di controllo di svolgere le proprie attività in modo sostanziale e non solamente formale, arrivando ad un’approvazione dei piani strategici e industriali dopo essere stati coinvolti nel processo e non semplicemente informati. Evolvere è la parola chiave che accompagna una società che mira alla stabilità sul lungo periodo: è necessario rafforzare continuamente le attività che portano benefici e solidità e, allo stesso tempo, è indispensabile esplorare opportunità per anticipare i cambiamenti del mercato e posizionarsi per tempo.

Avere un business sostenibile, oltre la necessaria difesa ambientale, quanto conta per un’impresa?

La sostenibilità può essere intesa sia per i suoi impatti esterni, al fine di preservare le generazioni future da effetti indesiderati di condotte poco lungimiranti, sia per quelli interni, indirizzando le decisioni dell’azienda valutando i rischi e le implicazioni nel lungo termine. In quest’ottica la sostenibilità non è solamente un’attività di comunicazione dei propri impatti sulle comunità, ma anche una vera e propria modalità di gestione aziendale, che sostenga e guidi gli organi decisionali a valutare come le scelte prese possano essere sostenibili anche nel lungo periodo. Nel nostro caso produrre energia da fonte rinnovabile, lavorare nell’efficienza energetica e sulla flessibilità del mercato elettrico, oltre a dare un contributo chiaro e diretto al processo di decarbonizzazione, sono diventati elementi di una strategia che mira a mettere il consumatore o il gestore della rete nelle condizioni di beneficiare di una reale convenienza economica. I nostri indirizzi strategici sono stati adottati pensando sia al presente, investendo in business redditizi, sia al futuro, valutando le potenzialità di crescita del mercato. Trasferire da una generazione all’altra know-how, conoscenze e competenze manageriali in azienda, maturate in anni di esperienza, rappresenta oggi uno dei passaggi critici del sistema produttivo italiano.

Oltre alla gestione delle variabili economico-finanziarie, quali capacità occorre mettere in campo per preservare l’esistenza dell’azienda?

Il dialogo intergenerazionale è un elemento critico per la società italiana. Solo attraverso il dialogo avviene lo scambio di informazioni e, soprattutto, gli interlocutori si preparano all’ascolto e alla comprensione reciproca. In un’Italia dove si è “giovani” fino a 35/40 anni ovviamente questo percorso non funziona bene. Il mondo del futuro è difficilmente comprensibile dalla generazione oltre i 45/50 anni, eppure in Italia nei centri decisionali, siano essi politici, civili o industriali, manca quasi completamente quella generazione che sta plasmando il futuro in un contesto globale e quindi autonomo dai vecchi riti sociali. Quando questo nuovo mondo sarà predominante, ma forse lo è già, il sistema Italia rischierà di essere in ritardo rispetto agli altri Paesi con cui dovrà competere. Noi cerchiamo di operare implementando un grado di aggiornamento sempre molto elevato: la conoscenza di un mercato in forte e costante evoluzione è un elemento chiave per mantenere solidità nel tempo. Sono quindi necessarie competenze che permettano di comprendere le dinamiche attuali e di provare a prevedere nel modo più rigoroso possibile la direzione che prenderà il settore.

L’apertura a capitali internazionali è ancora vista con reticenza dal sistema industriale italiano. Secondo lei invece quali contributi positivi possono dare gruppi esteri all’industria? Quali invece le insidie da cui guardarsi?

Il nostro è un sistema industriale che tende alla concentrazione del controllo e che propende per la piccola e media impresa, quasi più piccola che media. Il contesto competitivo globale richiederebbe invece grandi dimensioni e apertura del capitale per crescere. Il tessuto economico italiano si è adattato attraverso i distretti industriali e grazie alle proprie capacità imprenditoriali, penso quasi uniche al mondo. Ma lo sforzo e le difficoltà sono proporzionalmente superiori a quelle degli imprenditori che operano nei Paesi maggiormente industrializzati e il risultato è che il Paese non cresce, in termini reali, ormai da oltre 20 anni. In questo contesto “difensivistico” è comprensibile che i capitali esteri vengano visiti con diffidenza. Viceversa il Paese dovrebbe seriamente lavorare per abbassare quello che gli operatori economici chiamano “rischio Paese”, riformando la giustizia, la struttura normativa, la burocrazia e il ruolo del pubblico nella vita civile. Un’Italia a basso “rischio Paese” avrà cittadini e imprenditori meno sulla difensiva, pronti ad aprirsi sia al capitale nazionale, sia a quello estero. Senza capitale, infatti, difficilmente c’è crescita e in un contesto globale il capitale nazionale non è assolutamente sufficiente. Attrarre capitale estero è quindi essenziale, ma allo stesso sarebbero necessarie delle regole che garantiscano che il capitale arrivi da Paesi che hanno il nostro stesso grado di apertura e tutela.

Il suo Gruppo è internazionale. Rispetto al resto del mondo quanto è diverso fare impresa in Italia? Secondo lei inoltre molte imprese lasciano il nostro Paese perché da noi un operaio costa troppo o perché l’Italia tutta non risponde in maniera positiva a chi investe?

La differenza principale rispetto agli altri Paesi nei quali operiamo sono la qualità della Giustizia e il peso della burocrazia. I nostri problemi relativi alla Giustizia sono anche figli di una instabilità normativa che non ha eguali nel mondo. Abbiamo la sfortuna di vedere un nuovo governo in media quasi ogni anno (65 governi in 76 anni di Repubblica) e ogni governo tende a fare leggi che modifichino il lavoro del governo precedente. Ciò rende gli investimenti oltremodo complicati, ostacolando l’imprenditorialità. Parallelamente il mio auspicio è in una maggior semplificazione nell’ottenimento delle autorizzazioni per favorire lo sviluppo, diminuendo il grado di complessità della burocrazia. Per quanto riguarda il costo del lavoro, le statistiche ci dicono che non siamo costosi in senso assoluto, anche se non siamo particolarmente economici. Costiamo meno del nord Europa in generale, ad eccezione del Regno Unito, ma costiamo poco più dei paesi iberici, Spagna e Portogallo, e soprattutto costiamo molto di più dei paesi dell’est Europa. Ma il “rischio Paese” in Italia è molto più alto di un paese del Nord Europa, è simile a quello dei paesi iberici e, per quanto riguarda i paesi dell’Est Europa, la casistica va dal più alto (Repubblica Ceca e Slovacchia) a quello simile (Polonia) e infine al più basso (Bulgaria, Albania). In sintesi, se avessimo il “rischio Paese” di una nazione del nord Europa saremmo molto competitivi e invece abbiamo un “rischio Paese” che ci obbliga ad un confronto con paesi che offrono salari inferiori, rendendoci poco attrattivi.