Quali aspetti vanno considerati dal datore di lavoro, e dallo stesso manager, prima di accettare la sfida di un impiego prolungato all’estero
Non appena un’azienda raggiunge un certo grado di internazionalizzazione sorge l’esigenza di consolidare la sua posizione sui mercati esteri e, quindi, anche di spostare del personale all’estero per gestire le vendite sul posto oppure per supervisionare una struttura che si occuperà di adattare il prodotto alle esigenze locali.
Un lavoratore che viene spostato all’estero per periodi di tempo prolungati viene chiamato Expatriate (o expat). In genere si tratta di manager o quadri che, grazie a determinate skills, e, soprattutto, alla voglia di mettersi in gioco accettano sfide spesso molto formative.
Ci sono diversi punti da valutare da parte del datore di lavoro, e anche considerazioni da fare da parte del soggetto incaricato, prima di avventurarsi in un’esperienza all’estero.
Vediamo quali passaggi è necessario fare e quali aspetti analizzare scrupolosamente in maniera preliminare.
Per prima cosa bisogna comprendere le voci di costo necessarie nell’assumere un lavoratore expat. Queste possono rappresentare un investimento importante per il datore di lavoro e per questo necessitano di un minimo di pianificazione finanziaria. Il compenso può variare, anche se molto dipende dalla trattativa tra le parti, ma per un profilo con skills i costi potrebbero lievitare anche fino al 300% del relativo contratto in essere sul territorio locale. C’è da tener presente una serie di costi da definire nella fase iniziale come per esempio le eventuali spese di viaggio, vitto e alloggio, ma anche una serie di costi che si possono aggiungere per l’insorgere di imprevisti, come eventuali costi di rimpatrio. Si stima che un incarico ad un expatriate di tre anni potrà costare al datore di lavoro, in media, dal mezzo milione di euro in su.
Il datore di lavoro ha davanti due possibili scelte: puntare su profili che possono vantare una solida esperienza oppure rischiare puntando su profili con caratteristiche molto proattive, ma intraprendendo contestualmente una serie di azioni a supporto. Assumere risorse con la giusta competenza, fornire loro una buona formazione e un corretto orientamento alla cultura straniera durante il periodo all’estero è essenziale. Contestualmente è bene prestare attenzione alle esigenze dei familiari dell’expat al fine di consentirgli di dedicarsi al proprio lavoro serenamente.
Gli expat di solito affrontano i loro maggiori problemi in due precisi momenti, per questo si dice che subiscono un andamento a forma di doppia v (W). La prima delle v rappresenta il momento di ingresso nel mercato straniero e la seconda coincide con il momento del rimpatrio al rientro nel paese di origine. Nella prima fase, l’espatriato viene coinvolto dalla scoperta di nuovi posti e di una nuova cultura. Tuttavia, è in questa fase che incominciano a farsi dei parallelismi con il mercato di origine, come ad esempio pensare che «…nella mia città avrei potuto trovare e/o fare…». Questo è anche un momento di crescita interiore che viene facilmente superato da profili aperti ai cambiamenti e capaci di sminuire le difficoltà che giorno dopo giorno diventano più evidenti.
I problemi tipici includono le barriere linguistiche oppure ottenere prodotti e provviste di cibo cui si è abituati. É facile che in questa fase in discesa l’expat cada in uno shock culturale andando in confusione per lo scontro con la cultura locale. Contestualmente arrivano anche i problemi di lavoro che nei primi momenti potrebbero sembrare insormontabili non tanto per la complessità ma quanto per lo sforzo che anche un semplice obiettivo può richiedere in uno stato di forte ambiguità e incertezza nel futuro. Se non si è preparati si rischia addirittura di deteriorarsi al punto che potrebbe essere necessario un ritorno. Una delle cose che mi sento di suggerire è proprio quella di affrontare questi periodi da soli; per quanto mi riguarda questo approccio ha influenzato positivamente il raggiungimento dei risultati. Un expat da solo in un nuovo Paese rischia di avere un solo scopo, il lavoro, per questo finisce con il dedicare a questo obiettivo tutto il tempo disponibile. Al termine del progetto (dopo circa tre o quattro anni) l’expat deve affrontare il processo di rientro che può essere altrettanto stressante.
Dopo un lungo periodo di assenza, l’expat e la sua famiglia sono cambiati e anche il paese d’origine è cambiato. Spesso ci vuole tempo per abituarsi a vivere di nuovo a casa. Inizia così la seconda fase, si cade nella seconda “V” e si guarda con nostalgia a quello che di bello si è fatto e/o si è lasciato. Purtroppo in molti casi non si riesce ad assegnare all’expat rimpatriato un lavoro che corrisponda alle responsabilità e all’indipendenza precedentemente goduti. Per una serie di motivi, quindi, iniziano a lievitare le problematiche.
Ovviamente i problemi causati dallo shock da rientro possono essere ridotti al minimo attraverso un’attenta pianificazione. Ciò include il mantenimento di un adeguato contatto con l’ufficio d’origine durante l’assegnazione per l’expat, oltre a tutto il supporto possibile per il trasferimento. I datori di lavoro dovrebbero anche identificare nuove competenze e assegnare agli espatriati rimpatriati lavori commisurati alle loro rinnovate capacità.
Per le grandi organizzazioni è tutto più semplice perché hanno in piedi sistemi di pianificazione e sviluppo della carriera di un individuo su scala globale. Per il datore di lavoro di una PMI, invece, la cosa migliore spesso è quella di lasciare l’expat al suo destino e non provare neppure a ricollocarlo, a meno di non voler stravolgere la propria struttura. Idealmente, prima di accettare o meno un’opportunità all’estero, il lavoratore dovrà fare varie valutazioni; sono convinto che tra queste l’aspetto economico sia un parametro importante, ma sicuramente non può e non deve essere l’unico.