Gli spazi della critica

antonello tolveIl dibattito teorico attraverso le mostre 1980-2010 – Anni Novanta/6

 

Un progetto firmato da Liliana Albertazzi, immediatamente dopo l’inaugurazione della mostra di Jeffrey Deitch, mina in profondità la fiducia data (con Post-Human) alle parabole della biotecnologia, della nanotecnologia e della metamorfosi subita dal continente culturologico con l’innesto di nuovi strumenti e protesi estetiche provenienti dal panorama scientifico.

A fare da contraltare a Post-Human è Where? L’identité ailleurs que dans l’identification, allestita negli spazi del Musée d’Art Moderne de Saint-Etienne (dal 2 ottobre al 20 novembre 1992), che propone, dal canto suo, una linea tesa ad accentuare il rapimento estatico dello spettatore. Si tratta di un paesaggio che trova nella contemplazione, in «une nouvelle attitude contemplative de réceptivité» suggerisce Peter Bürger, il nucleo di una riflessione che ritorna all’opera e all’artista per sottolineare l’autonomia dell’arte e la costruzione di opere che trasformano l’ordinario in straordinario [«L’autonomie de l’art se manifeste ainsi d’abord en tant qu’autonomie de l’artiste par rapport au règles» (Bürger)]. Quasi ad assecondare un’attitudine differente nei confronti di una visione estetica e quotidiana che caldeggia la traiettoria elettronica, la mostra di Saint-Etienne calibra il proprio asse riflessivo su una identità che si pone altrove rispetto all’identificazione per mostrare una temperatura creativa più morbida. Non a caso all’accelerazione di Post-Human, Where? propone un prolungamento del tempo, una distensione fisiologica che si ripropone nella contemplazione. In uno spazio che assorbe e avvolge lo spettatore per avviarlo alla riflessione sul mondo.
«Di fatto», ha avvisato Marco Meneguzzo in uno dei solitari articoli apparsi in Italia sull’esposizione di Saint-Etienne, «questa rassegna francese, che raccoglie undici artisti europei, sembra essere il contrario, l’opposto polo di quella idea americana, presentata a Rivoli. Se infatti Post-Human gioca sull’omogeneità tra mass media e arte, questa rivendica all’arte un territorio che è solo suo, fatto di installazioni volutamente immobili e apparentemente non informative; al rumore di fondo di un televisore sempre acceso, quale sembra essere lo scenario di Post-Human, Where?… oppone il silenzio della contemplazione; a un tempo di percezione che si vuole il più vicino possibile simile a quello dell’informazione televisiva, si contrappone l’indicazione di un tempo altro, che vuole essere lontanissimo dal consumo veloce; al pugno nello stomaco di immagini forti – quelle di Post-Human – il disvelamento lento, lentissimo di una monumentalità segreta».
Non si tratta allora di un leggero intrattenimento, piuttosto di una considerazione che, attraverso una scuderia organica di artisti (Jürgen Albrecht, Joerg Bader, Jean-Pierre Bertrand, Chiara Dynys, Jokob Mattner, Adalberto Mecarelli, Walter Obholzer, Roland Poulin, David Tremlett e Richard Venle), centra il bersaglio su azioni creative che accentuano la polisemia per resistere alla referenzialità e ritessere, così, una storia dei segni sociali. Di Lingue e Parole, direbbe Barthes, che volgono lo sguardo «dans un sens concentrique» orientato «vers l’essentiel» per analizzare e verificare, via via, il fluire del tempo, la contingenza stessa delle cose.