Percorsa da una grammatica visiva fitta di segni e di oggetti, di affetti e di cose, la parabola visiva messa in campo da Pierpaolo Lista (Salerno, 1977) presenta un discorso che fa i conti con il quotidiano per costruire una prosa fatta di piccoli dettagli, di accenni e accenti preziosi.
Ricche di umorismo e di attenzione ai materiali minimi e miocinetici dell’arte, spigolose e apparentemente ostili, le sue opere – realizzate, tutte, su un supporto in vetro visarm o in cristallo – mirano ad introdurre in uno spazio ovattato, imbottito di colori densi e cremosi, intriso di emblemi che evitano i rumori del mondo e costruiscono scenari silenziosi, ossessivi, buttati giù apparentemente di getto, con pennellate rapide e ripide, grafi sicuri, leggeri, folgoranti. La sua pittura è, difatti, come «un fondo di rumore più morbido del silenzio, un lieve vento che passa nel folto di un bosco, o un mormorio d’acqua che rampolla e si perde in un prato» (Calvino).
Dopo una prima stagione transmaterica in cui l’artista ha investigato e fatto proprio un materiale, il vetro visarm – eletto, oggi, assieme al cristallo, a unico supporto della propria pittura (una pittura il cui procedimento capovolge il dettato operativo del dipingere per privilegiare il retro della lastra vitrea) –, e dopo un ingegnoso percorso fotografico che ha saputo portare il segno pittorico a revisione e scarnificazione (Dorfles) generando un lirismo davvero notevole e una sottile ed efficace estetica dell’ironia, Lista ha spostato la riflessione sui concetti di perdita e di appropriazione per dar luogo ad un circuito in cui lo spettatore accede all’oggetto rappresentato nell’opera ma ne resta paradossalmente escluso.
Il percorso affrontato da Lista tende a mostrare, infatti, un mondo in cui il vivente e l’oggetto si appartengono mediante originarie ritualità affettive. In cui l’ordinario è sempre eccezionale per dare (e magari ridare) senso alle cose o per aderire alla natura stessa delle cose.
Asettici, scarni, abitati da pochi argomenti d’uso quotidiano che galleggiano in un ambiente sovratemporale e sovrastorico, i suoi lavori ritornano all’intimo della pittura in quanto atto e gesto del dipingere. Ma evidenziano anche un rapporto con il fruitore. Un fruitore che inciampa nell’opera facendo entrare nel discorso artistico il tempo come durata reale (Achille Bonito Oliva) o, per dirla con Filiberto Menna, come vita vissuta.
Dal disegno alla pittura, dalla fotografia alla scenografia, la galassia oggettuale proposta da Lista si appropria, così, dell’oggetto ordinario per alleggerirlo ed immetterlo in un panorama poetico che fa i conti con il tempo della vita per costruire mondi incontaminati, spazi leggeri e trasparenti. Per lui la realtà tutta è il mondo. E il mondo, in tutte le sue varie declinazioni, è lo spazio nel quale muoversi per agire e produrre immagini delle cose, per costruire ambienti luminosi, per elaborare stati di cose che «sono indipendenti l’uno all’altro» (Wittgenstein), per presentare la situazione scelta «nello stato logico» dell’arte, per costruire immagini che sono un modello – uno dei tanti modelli – di realtà. Di una realtà alla quale Pierpaolo Lista si rapporta con dolcezza per evitare scontri o urti superflui, per deviare il corso su cose e ambienti fuori dal tempo. Fino a proporre una strada laterale che controlla la realtà mediante spostamenti, estraniamenti, segni dolci e pungenti che depurano il reale del (e dal) reale con lo scopo di mostrare una galassia volta a rivedere – a ripensare – il mondo. A segnarlo e disegnarlo mediante una ritmica che decapita i rumori del mondo per proporre via via pause o intervalli distensivi, piacevoli interruzioni sensoriali che fuorviano dai binari rigidi della ragione per immergere lo spettatore all’interno di un Bildhafte Denken legato alla fantasia, ad un caro immaginar che fa del reale il primum movens della creazione.
Morbide e pungenti le sue immagini si mostrano, perciò, come vie di fuga dalla realtà – Via di fuga è, tra l’altro, il titolo di una sua personale del 2012 – per costruire piccoli teatri segreti, piacevoli e passionali eterotopie. Controspazi che l’artista plasma per dar vita a immagini plastiche e cremose, a scenari virtuosi e lirici. Il cui modello, caratterizzato dalla ricerca del materiale minimo, progetta e proietta pseudoambienti, luoghi inesistenti prima di apparire in fotografia e inesistenti anche dopo essere stati fotografati. Si tratta, allora, di simulazioni del reale, di formule immaginifiche, di micro-scenografie che l’artista realizza con pezzetti di carta, ferro filato, spago, rimasugli di stoffa, stucco, acrilici e vernici. Di microspazi illuminati da colpi di luce (caldi o freddi, a seconda dei casi e delle scelte) che invitano ad interrogarsi sullo spazio reale mediante accenni e allusioni. Ma anche a scoprire una nuova autenticità, una nuova originalità, un nuovo valore – o una nuova resistenza – da riconoscere all’immagine.
Riabilitazione (2011), Monologo (2011), Grembo (2011), Assente (2011), Titolo in bianco (2011). E poi Manovra (2012), Prova d’autore (2012), Materia d’un sogno (2012). O, ancora, Fuori pista (2012), una biciclettina in fil di ferro impantanata in un sentiero sabbioso. Sono alcuni lavori, alcune tracce di un programma, di un viaggio teso a mettere ordine in quel caos percettivo della realtà che non concede la concentrazione su un singolo oggetto. Tracce di un piano estetico teso a creare, infine, un nesso differente tra il vero e quello che vero non è per andare al di là della realtà e concepire preziosi atolli felici, lontani dal maleström e dalle ambiguità dell’arte e della vita d’oggi.
Unknown Destination – titolo del trittico che fa da viatico a questa sua nuova personale –, Lascia passare (una Jepp con croce rossa), Qualcosa da leggere (dei libri con sfondo nero) Estinzione, Ogni cosa al suo posto e le impronte di Salto nel vuoto (un salto che è traccia indelebile della pittura) sono le opere che disegnano questo nuovo percorso che indica un movimento, un cammino, un viaggio privo di destinazione. Un viaggio («i viaggi sono un caso» ha apostrofato Antonio Tabucchi negli Altri frammenti della sua Donna di Porto Pim) che volge lo sguardo al di là della pittura e invita lo spettatore a interrogarsi, ancora una volta, sulle ragioni stesse del dipingere, dell’atto manuale, di un’atmosfera in cui la pittura si pronuncia come una poesia muta (Leonardo), come un salto nel vuoto della contemplazione, come ricerca di pensieri da pensare e da tradurre in immagini emotivamente efficaci, come eroica protesta contro l’irreversibilità del tempo.
Antonello Tolve / La leggerezza delle cose. La sospensione e il silenzio narrativo. La memoria e la lenta incubazione del ricordo. Muoverei da queste figure, da queste trame che sono, mi pare, punti luminosi del tuo lavoro.
Pierpaolo Lista / Il mio sforzo è trovare il modo di rappresentare le cose in maniera essenziale, non rumorosa, cercando di alleggerirle dai loro eccessi. Le immagini sono esemplificate per evidenziare un aspetto più intimo, a volte evocativo, personale.
Non tutti gli oggetti che utilizzo per i miei lavori appartengono al mio quotidiano, comunque me ne impossesso per riformularli attraverso una mia visione.
AT / Nel tuo percorso stilistico il linguaggio antico della pittura è passato a revisione mediante un escamotage stilistico che non solo abbandona la tela per favorire lastre in vetro visarm ma inverte e capovolge l’atto stesso del dipingere. Ti andrebbe di raccontare questo tuo personalissimo e singolare procedimento?
PpL / Dopo tante sperimentazioni con diversi materiali, ho iniziato a utilizzare la lastra di vetro come supporto per dipingere. Il semplice pennello non poteva più essere il solo strumento per tracciare il segno che è diventato incisione sullo strato di colore. Per me è stata una vera liberazione poter fare a meno degli strumenti tradizionali. Naturalmente ho capovolto la lastra dopo aver ricoperto e chiuso di colore il segno inciso. A questo punto la superficie del vetro è diventata un tutt’uno con il mio lavoro, perdendo così, la funzione di supporto.
AT / Quale riflessione ti ha spinto a scavare nel tessuto della pittura tout court (e della sua lunga storia) per approdare a queste tue superfici riflettenti?
PpL / Il vetro presenta tante caratteristiche, principalmente quella di riflette tutto ciò che si dispone davanti alla lastra. Ciò che più mi interessa è il risultato di levigatezza e di ulteriore pulizia dell’immagine. L’intento è di annullare ogni forma di materialità dell’oggetto.
AT / Nelle tue opere la figura umana è sempre assente, volutamente negata alla composizione. Questa operazione di sottrazione indica, a me pare, una sotterranea volontà di aprire l’opera allo spettatore. Di offrire, a chi guarda dall’esterno, un ingresso nell’opera e un rapporto diretto con l’oggetto raffigurato (e trasfigurato secondo manovre estetiche minime).
PpL / Effettivamente l’uso di un supporto, come dicevo, levigato e in qualche modo specchiante ha un pò lo scopo di catturare lo spettatore. Guardare è come entrare nell’opera e lasciarsi sedurre da ciò che gli oggetti o le cose evocano nell’immaginario di ciascuno.
AT / Che tipo di rapporto instauri con gli oggetti che prendi in esame e decidi di far entrare nel tuo lavoro?
PpL / Ho un rapporto da artigiano con gli oggetti, che accomodo per poi collocarli in una dimensione definitiva. Con alcuni oggetti, certamente si è stabilito un legame diretto, personale, di appartenenza. Non è questa però la ragione che mi porta a utilizzarli nei miei lavori, ma il loro valore simbolico, di rimando a qualcosa di più significativo per me, un po’ come accade con il linguaggio verbale.
AT / Ogni tua opera ha un titolo indicativo che rende spiritosa la composizione e pare intavolare un gioco – a volte paradossale, altre spiritoso – tra il referente e il segno, tra le parole e le cose.
PpL / Sì, è vero. Mi diverto a formulare titoli che giocano con l’immagine, ma trovo soprattutto fondamentale stabilire questo rapporto tra l’oggetto e il titolo che diventa l’aggancio, in questo caso, con lo spettatore.
AT / Fra la fine del 2007 e l’inizio del 2008 sei approdato anche alla fotografia non solo per sperimentare il linguaggio fotografico ma anche per realizzare una realtà minima in cui gli oggetti quotidiani sono ricostruiti per acquistare una vita diversa.
PpL / La fotografia mi ha sempre affascinato e per diverso tempo ne ho fatto un uso personale, tradizionale, diciamo così. Nell’estate del 2007 è entrata a far parte del mio lavoro quando ho iniziato a realizzare degli scatti nel mio studio dove ho costruito una realtà fittizia con materiali poveri quali la carta, lo spago e la luce. La mia esigenza primaria era quella di costruire delle immagini che fossero diverse da quelle reali. Questo perché, forse, il mio occhio era stanco delle sollecitazioni che arrivavano dalla fotografia pubblicitaria, da internet, dal cinema, dalla televisione. Mi interessava, insomma, una visione che non fosse la riproduzione di qualcosa che già c’è.
AT / Per realizzare i tuoi scatti fotografici crei piccoli teatrini segreti, strutture scenografiche attraverso le quali intavolare una serie di discorsi sugli oggetti che popolano la quotidianità. Come nasce uno scatto fotografico?
PpL / Probabilmente da un bisogno di ricostruire situazioni che mi interessano in una sorta di laboratorio privato. Per me uno scatto è il risultato di una messa in scena di oggetti che metto insieme in un contesto e che in tal modo assumono un altro corpo, un’altra luce.
AT / Quanta importanza ha l’illuminazione all’interno di questi scenari?
PpL / La luce ha un ruolo fondamentale. Utilizzo diverse fonti luminose di vario tipo per realizzare uno scatto, come una sorta di tavolozza dei colori per la fotografia. Il tempo di uno scatto mi consente di intervenire manualmente con le luci per realizzare segni, ombre e dosare i colori.
AT / Chiuderei con il disegno. Con il materiale minimo. Un brano di cui non ami molto parlare – forse perché intimo nella tua storia – ma che reputo davvero indicativo.
PpL / Disegno spesso anche un po’ ovunque. È per me un modo di prendere appunti. A volte un disegno può sostituire un pensiero scritto. Nel mio lavoro uso il disegno quasi sempre come traccia per un quadro o una fotografia.