La grave crisi sociale ed economica innescata dall’emergenza sanitaria richiede scelte innovative che, nel confronto aperto e leale, attingano sempre alle più profonde radici culturali e assiologiche della nostra Carta costituzionale
È tempo di essere visionari. Occorre «il coraggio delle visioni», afferma Mario Draghi al Senato riunito per votare la fiducia al governo che si accinge a lavorare per la «nuova ricostruzione». E nella presentazione del programma del nuovo Esecutivo, traccia con lucidità gli obiettivi strategici e le riforme che li accompagnano.
Non sono mancati anche negli anni più recenti i tentativi di introdurre riforme – fisco, pubblica amministrazione, giustizia civile, ma – secondo Draghi – «i loro effetti concreti sono stati limitati» e «il problema sta forse nel modo in cui spesso abbiamo disegnato le riforme: con interventi parziali dettati dall’urgenza del momento, senza una visione a tutto campo che richiede tempo e competenza».
Occorre compiere scelte decisive per il futuro dei nostri figli e nipoti ed è dunque il momento in cui è indispensabile il coraggio di essere visionari, mettendo in campo le competenze necessarie anche per la riforma della giustizia civile. Nell’ambito del fisco, infatti, come ricorda il presidente Draghi, le esperienze di altri Paesi insegnano che le riforme «dovrebbero essere affidate a esperti», che conoscono bene cosa può accadere quando si interviene modificando e innovando sistemi complessi.
Nel campo della giustizia il presidente Draghi ha precisato che le azioni da svolgere dovranno collocarsi principalmente «all’interno del contesto e delle aspettative dell’Unione europea». È noto, infatti, che nelle “Country Specific Recommendations” indirizzate al nostro Paese negli anni 2019 e 2020, «la Commissione, pur dando atto dei progressi compiuti negli ultimi anni, ci esorta ad aumentare l’efficienza del sistema giudiziario civile».
Occorrerà attendere l’avvio delle attività del dicastero competente per conoscere le linee guida che nel dettaglio saranno dettate, ma la competenza, l’esperienza e la sensibilità del nuovo ministro della Giustizia Marta Cartabia lasciano intravedere orizzonti ben diversi e più ampi, per l’avvio di una riforma strutturale della giustizia civile che punti all’innovazione, ma con un profondo ancoraggio assiologico alla Carta costituzionale e, quindi, in chiave solidaristica e coesistenziale.
Il 23 gennaio 2020 la professoressa Cartabia – all’epoca presidente della Corte costituzionale – intervenendo all’inaugurazione dell’anno accademico presso un ateneo romano, metteva in evidenza come la giustizia si possa realizzare pienamente quando si sostanzia nella riconciliazione, non nella vendetta. Il riferimento era chiaramente orientato alla giustizia penale, ma il sostrato comune del percorso giurisdizionale consente di ritenere che la riflessione possa e debba accomunare ogni ambito della stessa. Una giustizia dunque «volta a riconoscere, riparare, ricostruire, ristabilire, riconciliare, restaurare, ricominciare, ricomporre il tessuto sociale», una giustizia che si connota con il «prefisso ‘ri-’ che guarda in avanti alla possibilità di una rinascita».
Queste parole sembrano trovare una loro naturale e virtuosa convergenza con quelle pronunciate il 29 gennaio 2021 per l’inaugurazione dell’anno giudiziario dal primo presidente della Cassazione Pietro Curzio il quale, nell’affrontare il tema della riforma della giustizia civile, ha invocato l’intervento del legislatore «per prevenire la sopravvenienza di un numero patologico di ricorsi, mediante forme di risposta differenziate rispetto a quelle tradizionali in grado di giungere alla definizione del conflitto senza percorrere necessariamente i tre gradi di giurisdizione».
In questa prospettiva il presidente Curzio ritiene che in ambito civile debba essere valorizzata la mediazione «nelle sue molteplici potenzialità», segnalando a tal fine il lavoro del Tavolo tecnico per le procedure stragiudiziali istituito dal ministro della Giustizia nel dicembre 2019 e ponendosi in piena sintonia con le riflessioni svolte in quella sede.
Difatti, nel solco del “Manifesto della giustizia complementare” sottoscritto nel marzo 2020 dagli esperti del Tavolo tecnico ministeriale, in un momento di grave crisi sociale ed economica che richiede soprattutto l’implementazione di strumenti per la coesione sociale, il primo presidente della Cassazione ha evidenziato come la cultura della mediazione costituisca un «collante sociale, non solo per la riattivazione di una comunicazione interrotta fra le parti del conflitto, ma anche per la generale condivisione dei valori dell’autonomia, della consapevolezza e della responsabilità».
Inoltre, sempre seguendo le parole del presidente Curzio, la mediazione «avvicina il cittadino alla giustizia, perché lo rende finalmente partecipe delle modalità di risoluzione del conflitto e fiducioso dell’adeguatezza di tale servizio rispetto alle sue esigenze» e «assicura, infine, la deflazione del contenzioso giudiziale con conseguente ottemperanza al principio della ragionevole durata del processo, risposta celere alle parti in lite, riduzione dei costi della giustizia, più elevata efficienza del servizio e maggiore fiducia da parte dell’utenza».
In questo quadro, si rileva come anche l’organismo politico dell’avvocatura (OCF) con la delibera adottata il 23 gennaio 2021, richieda al legislatore la costruzione di un sistema efficiente della giustizia civile che «deve essere concepito e progettato, considerando l’intero spettro del quale è composto e si estrinseca, comprendendo necessariamente non la sola attività giudiziaria, ma anche l’ambito delle ADR che si configurano come una vera e propria “giustizia complementare”».
E sono proprio queste convergenze culturali e la diffusa consapevolezza dell’esigenza di dover avviare un serio e profondo percorso riformatore che invitano ad attingere al metodo e alla tensione morale e culturale che contrassegnò la stagione costituente, all’esito della quale si pervenne alla scrittura di una pagina fondante della storia italiana. Condivisione, creatività, realismo lungimirante e visione integrale, sono queste le caratteristiche indicate dalla professoressa Cartabia (nel dicembre 2020 nell’intervento ad un workshop destinato alle start-up) per affrontare la grave emergenza costruendo progetti ambiziosi ma realizzabili.
Il momento storico appare dunque davvero cruciale e la nomina del presidente emerito della Corte costituzionale Marta Cartabia – colta e autorevole costituzionalista – alla guida del ministero della Giustizia segna per il nostro Paese una chiara svolta.
«Oggi noi abbiamo, come accadde ai governi dell’immediato Dopoguerra, la possibilità, o meglio la responsabilità, di avviare una nuova ricostruzione» con senso di responsabilità e nell’unità, in quanto «oggi, l’unità non è un’opzione, l’unità è un dovere», secondo le parole del presidente Draghi.
È il momento in cui tutti siamo chiamati ad essere visionari e pragmatici allo stesso tempo, avendo quale principale obiettivo quello di lavorare per rafforzare la coesione sociale. E la giustizia civile – non meno di quella penale – penetra nella vita dei cittadini e delle imprese orientandone i destini.
Per cui oggi è davvero un giorno nuovo per la giustizia in Italia e si respira quella fiducia che nasce dalla certezza che sarà possibile scrivere insieme una pagina nuova.
È tempo per un patto che miri a rafforzare la coesione sociale ponendo le basi per la costruzione di una giustizia riconciliativa e coesistenziale, equilibrata, sostenibile ed efficiente. La grave crisi sociale ed economica innescata dall’emergenza sanitaria richiede scelte innovative che nel confronto aperto e leale attingano sempre alle più profonde radici culturali ed assiologiche della nostra Carta costituzionale.
Buon lavoro dunque al nuovo Ministro al quale non mancheranno il convinto supporto e la leale collaborazione di quanti intendono impegnarsi per la coesione e il rilancio del Paese.
I ritardi della giustizia civile valgono circa 1,5 miliardi di euro all’anno
L’elevato numero delle cause commerciali pendenti in Italia produce perdite di benessere pari a circa 1,5 miliardi di euro all’anno (0,09% del Pil). D’altronde già nel 2011 Mario Draghi segnalava come i ritardi della giustizia civile valessero proprio un punto di PIL all’anno.
A rilevarlo ora è uno studio comparativo condotto dall’Encj, la Rete europea dei Consigli della magistratura, tra Italia, Paesi Bassi, Norvegia, Irlanda e Lituania, i cui risultati sono riportati in una delibera approvata dal plenum del CSM. Il dato è calcolato «avuto riguardo ai costi complessivi sostenuti dalle parti in causa (spese legali, spese per avvocati e per il proprio personale, costi dovuti ai ritardi che subiscono le attività commerciali durante il processo e all’incertezza degli esiti dello stesso) e ai costi sostenuti dai Tribunali». Il valore delle controversie commerciali pendenti presso i Tribunali italiani, riporta ancora la ricerca, è pari al 2,17% del Pil a fronte, ad esempio, dei Paesi Bassi all’1,73% e della Norvegia allo 0,26%. Sul piano della durata media dei procedimenti relativi a contenziosi di valore pari o superiore a 1 milione di euro, l’Italia registra i dati peggiori tra i 5 paesi in comparazione. La durata media è, infatti, di 840 giorni per il primo grado e di 880 giorni per l’appello, a fronte di dati sensibilmente inferiori per gli altri paesi: Paesi Bassi 525 e 647; Lituania 383 e 290; Irlanda 291 e 517; Norvegia: 227 e 272.