Per il Censis, la nostra società è intorpidita al punto di mostrarsi passiva rispetto a processi dai cupi presagi, come l’inverno demografico, il cambiamento climatico e le incertezze relative a un quadro internazionale sempre più in fibrillazione. «Ci si rifugia nei piccoli piaceri del quotidiano», come ci racconta il direttore generale Massimiliano Valerii
Siamo completamente immersi nelle transizioni – digitale, climatica, demografica, energetica – ma sembriamo andare avanti senza seguire una traiettoria concreta. Il Censis, nel suo ultimo Rapporto, definisce il nostro un Paese di sonnambuli, a tutti i livelli: a tenerci prigionieri è il sonno della ragione, la rassegnazione o cosa altro?
L’immagine di sintesi scelta quest’anno capace, in un colpo solo, di rendere al meglio lo spirito del tempo è quella di un Paese sonnambulo.
I sonnambuli sono apparentemente vigili, ma incapaci di vedere realmente. Rispetto infatti a tutta una serie di processi sociali ed economici, largamente prevedibili nei loro effetti, non si prendono le decisioni giuste, quelle che sarebbero efficaci.
L’esempio emblematico è la radicale transizione demografica che stiamo vivendo. Dire che di qui al 2050, ovvero in un tempo brevissimo, meno di 30 anni, avremo quasi 8 milioni di persone in età lavorativa in meno, lascia facilmente intuire quanto forte sarà l’impatto sul sistema produttivo, sulla nostra capacità di generare valore, di distribuire ricchezza in termini di sostenibilità del nostro ingente debito pubblico, in termini di sostenibilità finanziaria della spesa sociale, sanità, previdenza, assistenza. Della questione demografica, però, soltanto ultimamente se ne parla un po’ di più, quando il processo di denatalità è nei fatti iniziato da molto tempo, poiché è dal 2014 che la popolazione italiana ha cominciato a diminuire. Dal 2014 ad oggi abbiamo già perso un milione e mezzo di residenti in Italia. Finora il fenomeno della denatalità è stato sottovalutato, quando non addirittura rimosso o affrontato con un certo fatalismo, quasi giustificandolo come un fenomeno che riguarda tutte le società occidentali, cosa peraltro assolutamente falsa. Sonnambuli significa sostanzialmente questo: si vive il tempo dei desideri minori, cioè si cerca l’appagamento nei piccoli piaceri della vita quotidiana, quelle micro felicità che si possono magari ricavare nel presente, senza affrontare in concreto la complessità delle sfide che la società contemporanea si trova davanti.
Questo, si badi bene, non è un atto d’accusa esclusivamente rivolto alle classi dirigenti del Paese o al ceto politico, perché riguarda più in generale tutti gli italiani, anche quella maggioranza silenziosa che si sveglia al mattino, va a lavorare, fa quel che deve fare, e poi inspiegabilmente ad un appuntamento determinante per la vita sociale e civile, quale è quello delle elezioni politico-amministrative, stabilisce record di astensionismo, la vera ferita profonda della storia repubblicana del nostro Paese. Questa insipienza diffusa è la risposta a una serie di aspettative deluse accumulatesi nel tempo; negli anni passati noi del Censis abbiamo prima parlato della società del rancore, poi di quella in cui imperava una sorta di sovranismo psichico che è facile rintracciare in una conflittualità latente, individualizzata; una società in cui diminuisce la fiducia in sé stessi e negli altri. Rinunciare per esempio al voto è un atto proprio di una società votata all’irrazionale perché la promozione del cambiamento è possibile solo con il voto politico. Gli italiani sono delusi dalle promesse mancate della modernità, prima tra queste l’accrescimento della propria prosperità economica, del proprio benessere sociale.
Un tradimento nei fatti e nei numeri: negli ultimi trent’anni, tra il 1990 e il 2020, il valore reale delle retribuzioni medie lorde in Italia si è ridotto di quasi il 3%, caso unico tra tutti i paesi Ocse, basti pensare che nello stesso lasso temporale, in Francia e in Germania le retribuzioni sono aumentate di oltre il 30%, nel Regno Unito addirittura del 40%. Questa delusione per le mancate promesse, in una prima fase si era trasformata in rancore, nella sensazione di aver subito un torto, ricevendo dal Paese meno di quanto si era dato. Rancore che però non muta oggi in rivalsa.
Dopo che è andata persa anche la scommessa elettorale sul Movimento 5 Stelle, che in qualche modo rappresentava l’onda anticasta, il tentativo di ricambio del ceto politico, nel nostro Paese ha preso grande forma l’astensionismo elettorale fino a prendere i contorni preoccupanti di oggi. Sono proprio le promesse mancate a far ripiegare gli italiani sui desideri minori, sprofondandoli in questo sonnambulismo che rende passivi rispetto a processi dai cupi presagi, come l’inverno demografico, il cambiamento climatico, le incertezze relative a un quadro internazionale sempre più in fibrillazione. Alla “nottata” che si vive, non corrisponde al risveglio alcuna decisa presa di consapevolezza, né tanto meno un’azione conseguente.
Quale sogno allora può rimetterci insieme, direttore? Visto che – il Rapporto lo dice tra le righe – è la collettività a essersi disunita innanzitutto. Forse questo è l’allarme più forte.
Guardi, ci sono due piani di analisi. Non tutto dipende tutto da noi; anzi siamo molto subordinati a quanto accade a livello internazionale. Il bilancio della globalizzazione che ha interessato anche il nostro Paese negli ultimi trent’anni è controverso, ma di certo le classi medie occidentali hanno pagato un prezzo alto, che le ha viste assistere impotenti all’ascesa delle classi medie asiatiche, prima tra tutti la Cina, con l’effetto di dare vita ad esempio ai famosi forgotten men di Trump, uomini e donne “dimenticati” d’America che non si sentono né visti, né rappresentati.
Va formandosi un nuovo ordine mondiale da cui dipende anche il sentiment del nostro Paese, ma esistono anche delle specificità italiane di cui non possiamo non tener conto. Il nostro quadro demografico non si ritrova uguale né in Europa, né tanto meno negli Stati Uniti. Cosa potrebbe rimetterci insieme? Ricucire e rinvigorire un immaginario collettivo oggi compromesso, primo responsabile dei grandi flussi di espatrio che avvengono nel nostro questo Paese. Solo nel corso dell’ultimo anno, 36.000 giovani tra i 18 e i 34 anni hanno trasferito la loro residenza all’estero. 36.000 giovani equivalgono – come dimensione – a una piccola città italiana. Giovani che vanno via perché nel loro immaginario collettivo si è radicata l’idea di un decadimento irreversibile di questo Paese. A volte è anche sproporzionato ed eccessivamente pessimistico ma è senz’altro la spia di un patrimonio di ideali non più fertile, propulsivo, come è stato negli anni migliori in questo Paese.
La dimensione immateriale poi si intreccia con quella materiale. Ricordiamoci che al primo censimento dell’Italia Repubblicana, nel 1951, le persone con meno di 35 anni, i giovani, rappresentavano il 57% della popolazione.
Oggi sono meno del 33%. La demografia quindi incide sia sui processi produttivi, sia proprio sull’immaginario collettivo. Un Paese tendenzialmente anziano, come il nostro, è facile preda di paure e incertezze e manca di quella forza propulsiva che potrebbe spingerlo a guardare avanti con ritrovata fiducia proprio perché i giovani più talentuosi, gli unici che avrebbero il vigore ideale per rimetterlo in piedi, abdicano e vanno via.
In questa situazione a tinte fosche i corpi intermedi potrebbero assumere un ruolo di valore?
Devono. Come le dicevo siamo sulla soglia di una nuova epoca, in cui si si sta mettendo in discussione il paradigma della globalizzazione che, nei fatti, ha marginalizzato i corpi intermedi, riducendone la funzione sociale.
Nella nuova fase, auspico che i corpi intermedi possano ritrovare la loro funzione sociale, perché questo meccanismo del liderismo, in cui da un lato c’è il leader, dall’altro il popolo e nulla in mezzo, non ha funzionato. I corpi intermedi devono recuperare la loro funzione di cinghia di trasmissione tra le istanze sociali ed economiche di diversi gruppi sociali, delle diverse categorie produttive, affinché quelle stesse istanze vengano correttamente trasferite e ascoltate nelle sedi decisionali.
Aggiungo anche un’altra cosa. Negli Stati Uniti, si parla molto di reshoring, di rimpatrio delle produzioni.
È sorprendente leggere, per esempio, sul Financial Times, espressioni perentorie del tipo «all economics is local», mentre fino a pochi anni fa anche i territori avevano perso la loro incidenza politica, dovevano funzionare solo come trampolino di lancio affinché le imprese del Made in Italy agganciassero i flussi globali. Oggi, il rimpatrio delle produzioni potrebbe accompagnarsi a una nuova valorizzazione del ruolo dei territori e dell’incidenza politica delle forze sociali ed economiche presenti nei territori, anch’esse negli anni recenti svuotate di senso. Nel nostro Paese abbiamo dapprima abolito le province, poi accorpato le camere di commercio e reso residuali le comunità montane; anche il dimezzamento del numero dei parlamentari ha comportato, tra i vari effetti, il fatto che molti territori italiani oggi non esprimono neanche un deputato o un senatore.
Questa è stata la stagione in cui a contare erano solo i flussi globali: i territori stavano lì ma perdevano anche incidenza politica.
Mi auguro allora che si inauguri una stagione diversa, in cui sia i corpi intermedi, sia i territori possano recuperare la loro funzione sociale innanzitutto, la stessa che hanno ben svolto nel periodo migliore di sviluppo del nostro Paese.
Quando dice territori fa riferimento all’autonomia differenziata? Che giudizio dà del progetto di legge Calderoli?
Credo non sia un caso che il tema sia tornato centrale nell’agenda politica proprio ora. L’autonomia differenziata è una delle soluzioni, non necessariamente la soluzione.
Nella sua impostazione di ridare valore ai territori è assolutamente condivisibile. Si deve tornare a parlare di un assetto poliarchico che valorizzi il policentrismo italiano, restituendo ai territori la capacità di incidere politicamente.
Ritiene che la politica terrà nel dovuto conto la vostra analisi?
Dovrebbe. Il Paese ha bisogno di riforme strutturali condivise, da attuare subito ma che necessiteranno di tempo per dispiegare i loro effetti. Forse resteremo inascoltati perché ciò che suggeriamo non ha e non può avere consenso politico immediato.
È lo stesso meccanismo per cui si presta scarsa attenzione ai nostri giovani che, incompresi e ignorati, rinunciano a sentirsi parte di un processo che genera valore condiviso e fuggono all’estero.