Il “tovagliometro” e gli altri accertamenti analitici induttivi

In molti casi l’applicazione di questo strumento perde autorevolezza se viene dimostrata l’approssimazione dei beni utilizzati

L’accertamento analitico-induttivo, denominato anche presuntivo, consiste nella contestazione dell’evasione mediante il ricorso a presunzioni “qualificate”, ovvero gravi, precise e concordanti.
Il fondamento normativo di ciò si rinviene negli articoli:
• 38 comma 3 del D.P.R. 600/73, in base al quale, relativamente alle persone fisiche, l’incompletezza, la falsità e l’inesattezza dei dati indicati in dichiarazione «possono essere desunte dalla dichiarazione stessa, dal confronto con le dichiarazioni relative ad anni precedenti e dai dati e dalle notizie di cui all’articolo precedente (ad esempio dai dati rinvenuti in sede di controllo) anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti»;
• 39 comma 1 lett. d) del D.P.R. 600/73, secondo cui, nel reddito d’impresa, «l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti».

Occorre precisare che l’accertamento analitico-induttivo è cosa ben diversa dall’accertamento induttivo (denominato anche induttivo “puro”).
Infatti, l’accertamento induttivo, ai fini della sua legittimità, richiede la sussistenza delle tassative condizioni previste dal secondo comma dell’art. 39 del D.P.R. 600/73, tra le quali rientra, ad esempio, l’inattendibilità della contabilità.

In questa sede vogliamo soffermarci sugli accertamenti sviluppati con il metodo analitico-induttivo ex art. 39, comma 1, lett. d) del D.P.R. n. 600/973 ed, in particolare, sull’orientamento giurisprudenziale formatosi, al riguardo, sino ad oggi.

La Giurisprudenza sia di merito che di legittimità, negli ultimi anni, si è più volte pronunciata sulle circostanze in cui è ammesso l’utilizzo dell’accertamento analitico-induttivo (ex art. 39, primo comma, lettera d), del D.P.R. 29/9/73, n. 600) e sulla legittimità dell’operato dell’Ufficio che prende a base i consumi delle materie prime.
Ed è così che si è iniziato a parlare di “Tovagliometro” (C.T.R. di Venezia n. 77 del 10/07/2012), “Bottigliometro” (Cassazione n. 17408/2010), “Farinometro” (Cassazione n. 15858/2011), “Lenzuolometro” (C.T.R. di Genova n. 12 del 15/03/2013), di “Barometro” (C.T.P. di Ravenna n. 243/02/2011).

Il che tradotto vuol dire: il consumo dei tovaglioli, così come dell’acqua minerale, della farina, della biancheria, o il numero delle bare utilizzate per organizzare i funerali, sono divenuti elementi comprovanti un maggior reddito in capo all’esercente di un’attività commerciale, di ristorazione o alberghiera, rispetto a quello dai medesimi dichiarati.
Orbene, ad avviso dei giudici di legittimità, in simili ipotesi, l’applicazione dell’accertamento fondato nell’ambito dell’art. 39, comma 1, lett. d) del D.P.R. 600/1973 è legittimo; vengono, dunque, confermate le ricostruzioni indirette dei maggiori ricavi operate dall’Amministrazione Finanziaria basate – appunto – su “tovagliometro”, “bottigliometro”, “farinometro”, “lenzuolometro”, “barometro”.

Caratteristica principale della norma sopra citata è quella di consentire di desumere «….l’esistenza di attività non dichiarate….anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti».
In particolare, gli Ermellini continuano ad avallare – in termini di legittimità – la ricostruzione induttiva dei ricavi sulla base dei tovaglioli utilizzati o del consumo dell’acqua minerale o dell’impiego di materie prime per confezionare i pasti e, se il risultato è ragionevole e verosimile, con riferimento alle caratteristiche e alle condizioni di esercizio dell’attività svolta, l’onere della prova ex art. 2946 c.c. è ribaltato sul contribuente.

Si segnalano di seguito le recenti sentenze più rilevanti emesse dalla Corte di Cassazione sull’argomento in questione:
Cassazione n. 11622/2013: «nella vasta casistica dei principi regolativi in materia, si è ritenuto da questa Corte che nell’accertamento tributario, sia presuntivo del reddito d’impresa (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett.d)), sia induttivo in materia di IVA (D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 55), è legittima la ricostruzione dei ricavi di un’impresa di ristorazione anche sulla base del solo consumo di acqua minerale, costituendo lo stesso un ingrediente fondamentale, se non addirittura indispensabile, nelle consumazioni effettuate (Sez. 5, Sentenza n. 17408 del 23/07/2010)….. Invero, non può dirsi che, riguardo al settore della ristorazione, vi sia un indicatore “principe” per la ricostruzione presuntiva dei ricavi, ben potendo gli indici rivelatori variare da caso a caso ed essendo compito del fisco, prima, e del giudice tributario di merito, poi, quello di cogliere i peculiari nessi inferenziali che siano adeguati alla singola fattispecie concreta».

Cassazione n. 7377/2011: «Questa Corte (Cass. n. 17408/2010) in ipotesi simile a quella in esame ha osservato che “nella prova per presunzioni, la relazione tra il fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo sufficiente che l’esistenza del fatto da dimostrare derivi come conseguenza del fatto noto alla stregua di canoni di ragionevole probabilità. Pertanto, in tema di accertamento presuntivo del reddito d’impresa, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), è legittimo l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati, costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ciascun pasto, ogni cliente adoperi un solo tovagliolo e rappresentando, (quindi, il numero di questi un fatto noto capace, anche di per sé, di lasciare ragionevolmente e verosimilmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati (pur dovendosi, del pari, ragionevolmente, sottrarre dal totale i tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi, quali i pasti dei soci e dei dipendenti, l’uso da parte dei camerieri e simili)».

Cassazione n. 12799/2011: «Questa Corte (Cass. n. 17408/2010) in ipotesi simile a quella in esame ha osservato che “nella prova per presunzioni, la relazione tra il fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo sufficiente che l’esistenza del fatto da dimostrare derivi come conseguenza del fatto noto alla stregua di canoni di ragionevole probabilità. Pertanto, in tema di accertamento presuntivo del reddito d’impresa, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), è legittimo l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati, costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ciascun pasto, ogni cliente adoperi un solo tovagliolo e rappresentando, (quindi, il numero di questi un fatto noto capace, anche di per sé, di lasciare ragionevolmente e verosimilmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati (pur dovendosi, del pari, ragionevolmente, sottrarre dal totale i tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi, quali i pasti dei soci e dei dipendenti, l’uso da parte dei camerieri e simili)»…Si è pertanto rilevato che «l’elemento de quo (acqua minerale) può anch’esso costituire valido elemento per la ricostruzione presuntiva del volume di affari della società intimata, esercente la medesima attività, in quanto il consumo dell’acqua minerale deve ritenersi un ingrediente fondamentale, se non addirittura indispensabile, nelle consumazioni effettuate sia nel settore del ristorante che della pizzeria, più degli altri elementi indicati dalla parte ricorrente (gas, elettricità, tovaglie e tovaglioli o dal numero di coperti disponibili, dal personale dipendente e dai prezzi praticati)». Non può non osservarsi poi che la facoltà per l’Amministrazione Finanziaria di procedere ad accertamento induttivo, non solo quando la dichiarazione del contribuente non sia congrua con gli studi di settore, ma quando «gli accertamenti…possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra ricavi, compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività».

Cassazione n. 17408/2010: «L’Amministrazione finanziaria può procedere all’accertamento induttivo, non solo quando la dichiarazione del contribuente non sia congrua con gli studi di settore, ma anche quando sussistano gravi incongruenze tra i ricavi, compensi e corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività. Tali incongruenze sono legittimamente ravvisabili quando, come nel caso, la quantità di acqua minerale consumata nell’esercizio di attività di ristorante-pizzeria sia particolarmente eccedente in quantità da quella che mediamente può essere consumata dai singoli avventori, tenuto anche conto di una percentuale, calcolata nella misura del 30%, a causa di dispersione per usi vari….In tema di accertamento tributario, sia presuntivo del reddito d’impresa, a norma dell’art. 39, primo comma, lett. d) del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, sia induttivo in materia di IVA, ai sensi dell’art. 55 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, è legittima la ricostruzione dei ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base del consumo di acqua minerale, costituendo lo stesso un ingrediente fondamentale, se non addirittura indispensabile, nelle consumazioni effettuate».

Cassazione n. 8643/2007: «La motivazione della sentenza impugnata è esaustiva e coerente, dal momento che i giudici di secondo grado hanno osservato che “nel caso di specie, l’ufficio avrebbe legittimamente applicato il metodo induttivo per la ricostruzione degli esatti ricavi, giungendo a risultati accettabili, pur in presenza di un solo dato certo costituito dal numero di tovaglioli lavati».

Accanto a queste pronunce degli Ermellini meritano di essere citate ulteriori decisioni dei giudici di merito in base alle quali la ricostruzione induttiva operata solo con il tovagliometro o altro elemento è e rimane, solo ed esclusivamente, un’ipotesi di occultamento di ricavi a livello di semplice indizio.

In particolare:

la Sentenza n. 58 del 09/04/2013 della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia secondo la quale «É illegittima la ricostruzione induttiva dei ricavi nei confronti di un’attività di ristorazione basata sul “tovagliometro” qualora non vengano analiticamente presi in considerazione gli utilizzi ulteriori dei tovaglioli per la cucina, la sala e il bar, per i pasti erogati ai dipendenti e per quelli effettuati per l’autoconsumo e comunque non siano adeguatamente considerati la capienza dei locali, i giorni di apertura e i turni di servizio non potendo essere sufficiente per la considerazione di quanto sopra l’abbattimento forfettario dei tovaglioli complessivamente utilizzati in ragione del 25%». (Nel caso di specie, la contribuente, società agricola esercente attività di ristorazione, risultava destinataria per l’anno d’imposta 2006 di un avviso di accertamento che rideterminava i ricavi conseguenti ai pasti forniti attraverso l’utilizzo dei tovaglioli (cosiddetto “tovagliometro”), tenendo conto di un abbattimento forfettario del 25%, che però non risultava sufficiente per considerare gli utilizzi ulteriori dei tovaglioli, oltre a quelli effettuati per pasti effettivamente erogati. In particolare, l’ente impositore non aveva considerato gli utilizzi in cucina, nella sala, nel bar, per i pasti erogati ai dipendenti e per i pasti auto consumati. Infine non aveva tenuto conto della capienza dei locali, dei giorni di apertura e dei turni di servizio).

La Sentenza n. 12 del 15/03/2013 della Commissione Tributaria Regionale della Liguria secondo la quale «Il contribuente in linea con gli studi di settore non può essere sottoposto ad accertamento cd. “lenzuolometrico” soprattutto se l’Ufficio non tiene conto delle eccezioni del contribuente volte a far diminuire i ricavi, come ad esempio l’utilizzo delle camere matrimoniali al posto delle singole e le tariffe inferiori praticate in bassa stagione».

 

I giudici genovesi, dunque, hanno respinto la tesi dell’Agenzia delle Entrate affermando che l’accertamento non si basa su precisioni gravi, precise e concordanti tali da scansare le risultanze degli studi di settore che vedevano, invece, la dichiarazione del contribuente pienamente congrua e coerente. É, pertanto, illegittimo l’accertamento fiscale emesso nei confronti di un albergatore e basato solo sul numero di lavaggi delle lenzuola, soprattutto se il contribuente è sempre stato congruo e coerente ai fini degli studi di settore; la Sentenza n. 77 del 10/07/2012 emessa dalla Commissione Tributaria Regionale del Veneto secondo cui «il solo “tovagliometro”, se non adeguatamente supportato da ulteriori misurazioni e da precisi indizi dell’evasione fiscale, non è sufficiente alla ricostruzione dei ricavi del ristorante».

 

I giudici veneti richiamano, a supporto della propria decisione pro-consumatore, anche la consolidata giurisprudenza della Cassazione per cui il consumo di tovaglioli non era mai l’unico strumento utilizzato per determinare i presunti maggiori incassi. Mancavano, si legge ancora nelle motivazioni della sentenza, “riscontri con la realtà aziendale” quali la coesistenza della struttura alberghiera e del ristorante, la stagionalità del business e la tipologia di clientela che frequentava le due strutture, formalmente separate ma con servizi comuni; la Sentenza n. 81 del 10/11/2011 emessa dalla Commissione Tributaria Regionale del Piemonte in base alla quale «è nullo l’accertamento fondato sul solo rapporto fra il caffè acquistato e quello (presunto) somministrato ai clienti del ristorante a fine pasto»…Non può essere ricostruito il numero dei pasti di un ristorante sulla base del numero di caffè consumati (“caffè-metro”), in quanto, a differenza del “tovagliometro”, il calcolo effettuato risulta essere influenzato da troppe variabili (nel caso di specie, l’ente impositore rettificava i ricavi d’impresa di una locanda effettuando un doppio passaggio. Dapprima determinava in 15.429 caffè il numero di tazzine servite, partendo dai 108 chilogrammi comprati, considerando un consumo di sette grammi per ogni tazzina, abbattendo del trenta per cento i conteggi raggiunti, e sottraendo l’autoconsumo pari a 1.250 caffè. Veniva così ottenuto il numero dei caffè teoricamente serviti. La differenza tra caffè teoricamente serviti, e quelli dedotti nelle ricevute fiscali e pari a 6.654, e pari a 2.073 caffè, è stata considerata venduta in nero ed associata ad un pasto. Ogni pasto in nero è stato mediamente quantificato a 40,00 Euro, generando così ricavi per 82.920,00 euro. Tale ragionamento, sarebbe stato avallato dal controllo del vino, che avrebbe portato ad un maggior numero di pasti venduti pari a 4.000. L’ente impositore avrebbe cautelativamente preso l’ammontare inferiore. Per il contribuente il consumo del caffè era di 8 grammi per tazzina nei mesi in cui funzionava bene la macchina del caffè, e 9 grammi negli altri nove mesi dove la macchina funzionava meno bene).

Pertanto, alla luce di ciò, è importante sottolineare che sebbene la Giurisprudenza di Cassazione negli ultimi anni si sia più volte pronunciata a favore dell’accertamento analitico-induttivo basato sui consumi delle materie prime – cominciando così a parlare di “Tovagliometro, Farinometro, Shampometro, Bottigliometro” a seconda dei beni presi in esame – in molti casi l’applicazione di questo strumento perde autorevolezza se viene dimostrata l’approssimazione dei beni utilizzati.

 

* L’articolo è stato redatto in collaborazione con l’avvocato IIdalisa Lamorgese dello Studio Tributario Villani