Ristabilita, in via interpretativa, la simmetria fiscale delle operazioni di rinuncia ai crediti dei soci, negata fino ad oggi dall’Agenzia delle Entrate
Il cc.dd. “incasso giuridico” è un’esplicita fictio iuris, cui finora ha fatto ricorso l’Amministrazione Finanziaria per sottoporre a tassazione la rinuncia a crediti che i soci vantano verso la società, relativi a ricavi o compensi tassabili per cassa.
La tesi “tassatoria” dell’Agenzia delle Entrate si basava sull’assunto che un credito rinunciato dal socio/prestatore – che aveva generato un costo deducibile per la società committente – creasse una asimmetria fiscale ai danni dell’erario.
Ciò in quanto l’art.88 comma 4 TUIR, vecchia formulazione, prevedendo l’irrilevanza fiscale per la società partecipata della corrispondente sopravvenienza attiva emergente da detta rinuncia, determinava un disallineamento fiscale costo deducibile- sopravvenienza detassata.
L’Agenzia aggiungeva, inoltre, che tale rinuncia in realtà non causava nemmeno una perdita per il rinunciante, ma di contro un suo, seppur indiretto, arricchimento, in virtù della circostanza che il patrimonio della società veniva ad accrescersi dell’ammontare rinunciato.
Occorre poi precisare che gli effetti fiscali di questo approccio, ovviamente, non si limitavano alla sola tassazione dell’importo rinunciato, ma si estendevano anche all’insieme accessorio degli oneri fiscali e previdenziali da addebitarsi alle beneficiarie delle rinunce.
Tale posizione non è mai stata condivisa dalla Dottrina, per svariate ragioni. Innanzitutto, si è obiettato che la fattispecie dell’incasso giuridico non è contemplata nell’ordinamento tributario, e quindi non può richiedersi il pagamento di tasse in assenza di un preciso presupposto di legge.
Poi si è controbattuto, che l’asimmetria fiscale non è infrequente nel nostro sistema tributario (peraltro quasi sempre a vantaggio dell’erario) e che vi sono anche casi, si pensi alla rinuncia a dividendi deliberati, in cui l’asimmetria nemmeno esiste, perché la società non contabilizza alcun costo deducibile a fronte degli stessi (in questo senso la CTR del Friuli del 3.3.2020).
Si è anche aggiunto sull’ipotetico e teorico arricchimento, che l’importo oggetto di rinuncia non è mai deducibile da parte del socio, ma va ad accrescere il costo fiscale della sua partecipazione, in perfetta simmetria quindi con la quota parte ideale dell’incremento del patrimonio netto di cui beneficia la società.
In sintesi, queste simmetriche allocazioni di importo non fanno crescere il valore della società, ma eventualmente il solo dato contabile del patrimonio netto.
Certamente, anche le posizioni contrarie a quelle dell’Agenzia avevano punti di debolezza, ma questa considerazione non fa altro che rafforzare il fatto che la questione dell’incasso giuridico era e rimaneva quanto meno incerta.
La Giurisprudenza di legittimità, sinora, aveva sempre seguito la tesi dell’Agenzia delle Entrate (in particolare la lontana circolare n. 73/94 e la risposta n.124/2017), ad esempio nei casi di rinuncia al trattamento di fine mandato (TFM) delle società di cui il socio era anche amministratore, ovvero in quelli in cui la rinuncia aveva ad oggetto interessi maturati e non percepiti da soci finanziatori, e così via.
In tali fattispecie la Suprema Corte aveva affermato che la rinuncia ai compensi costituiva una prestazione che andava ad aumentare il patrimonio della società con relativo aumento del valore delle quote sociali (concetto tutto da dimostrare in verità).
La rinuncia al credito, quindi, anche se non materialmente incassato, si configurava come conseguita e ciò faceva sorgere in capo al socio l’obbligo di sottoporla a tassazione, con relativa ritenuta da operare da parte della società.
C’è anche da dire che le posizioni negative di prassi e giurisprudenza si muovevano sempre nell’ambito di fattispecie concrete, in cui le società erano a ristretta base partecipativa e quindi il timore di comportamenti elusivi era più elevato.
Ma anche in questo scenario, si è osservato che – almeno in linea di principio – eventuali esigenze antielusive (le sole che possano giustificare una fictio iuris ai soli fini tributari) non potessero giungere a qualificare come incasso un evento creato per finzione giuridica, tenuto conto che il concetto stesso di “incasso” faceva inequivocabilmente supporre un trasferimento di ricchezza (o forme equivalenti) da un soggetto ad un altro.
La sentenza della Suprema Corte n.16595 del 12 giugno 2023 ha modificato questo consolidato orientamento negativo di prassi e di giurisprudenza e ciò in virtù di una più sistematica lettura delle norme del TUIR al riguardo. Infatti, la Corte ha precisato che, a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 7 ottobre 2015, col nuovo art. 88 comma 4-bis del TUIR, la rinuncia dei soci ai crediti si considera sopravvenienza attiva per la parte che eccede il relativo valore fiscale.
Ne deriva che, nel nuovo regime, l’apporto è detassato per la sola parte di rinuncia, che corrisponde al valore fiscalmente riconosciuto del credito in capo al socio. Simmetricamente, in capo al socio/prestatore l’ammontare della rinuncia si aggiunge al costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione, solo nei limiti del valore fiscale del credito oggetto di rinuncia.
In altri termini, da un lato, la rinuncia al credito tassato per cassa da parte di un socio non determina un incremento del valore fiscale della partecipazione e, dall’altro, tale rinuncia comporta la tassazione integrale della sopravvenienza attiva in capo alla società partecipata.
Questa soluzione, già prospettata dalla dottrina e da parte della giurisprudenza, nei fatti cancella il controverso e inesistente istituto dell’incasso giuridico e ristabilisce, in via interpretativa, la simmetria fiscale delle operazioni di rinuncia ai crediti dei soci, negata fino ad oggi dall’Agenzia delle Entrate.
Si deve ritenere che questa sentenza possa estendersi, a maggior ragione, anche alle operazioni di rinuncia da parte dei soci ai loro crediti per dividendi non riscossi, che, come sopra descritto, nemmeno nello scenario ante riforma dell’art. 88 avrebbero dovuto determinare reddito per i soci, non essendo correlati a costi dedotti dalla società partecipata.
La considerazione finale è lasciata al tempo trascorso dall’introduzione della modifica normativa dell’art.88 che è del 2015. Sono stati necessari otto anni di sentenze e prassi contrarie per dirimere una vicenda che è sempre apparsa ai più come una indebita forzatura.
Oggettivamente troppi.