La crisi covid può diventare l’opportunità, ma senza commettere errori nel processo di riforme
Anche se non si direbbe, l’Italia è diventata negli ultimi tempi un paese molto attrattivo per i Fondi Globali di Investimento nel mondo. A dirlo una recente ricerca condotta da uno dei maggiori network di Consulenza e revisione (Ernst &Young) che ha avuto una certa eco mediatica.
Gli investitori privati che mettono i soldi nell’economia sono i benvenuti perché creano ricchezza e occupazione. Ma perché questa attrattiva. Da cosa deriva?
Essa è dovuta al fatto che l’Italia, tra i paesi europei, è quello che investe di meno in infrastrutture (7% del PIL, mentre la Spagna è al 9% e la Francia all’11%). L’arrivo dei fondi europei del Recovery Fund, assai interessante per l’Italia, inoltre accresce questa attrattiva perché uno degli obiettivi prioritari del programma europeo è anche quello di sbloccare capitali privati, e i Fondi Globali sono in prima linea. Al netto di polemiche e preoccupazioni legittime, vediamo di dare qualche spunto di riflessione. Abbiamo sempre saputo che il nostro meraviglioso Paese, ideale per i vacanzieri di tutto il mondo, non lo è per gli investitori stranieri, a causa di un sistema non semplice, soprattutto in termini di procedure, burocrazia e giustizia.
L’esempio positivo del “Ponte Morandi” di Genova, ovvero la realizzazione di un’importante opera in tempi brevi e con una prova di alta ingegneria e capacità di impresa, ha di certo avuto un impatto positivo in queste valutazioni, al punto che alcuni nostri commentatori – e molti politici frettolosi – vorrebbero riforme per far assurgere a regime a il «metodo Genova», refrain che torna ossessivo in queste settimane, in periodo di trasformazioni annunciate.
Credo che pochi conoscano, in realtà, cosa è avvenuto a Genova. Tutto è stato dettato dalla tragedia e dall’emergenza, oltre che dalla volontà del Governo di allora, appena formatosi, di dare risposte immediate.
Dopo il crollo del Ponte Morandi in quella tragica estate del 2018, il Consiglio dei Ministri dichiarò lo stato di emergenza – primo elemento di straordinarietà – nominando Commissario straordinario prima il Presidente della Regione e poi, con D.L. 28 settembre 2018 n. 109 (c.d.decreto “Genova”), il Sindaco di Genova, per la ricostruzione con l’autorizzazione a operare «in deroga ad ogni disposizione di legge diversa da quella penale, fatto salvo il rispetto delle disposizioni delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011 n. 159, nonché dei vincoli inderogabili derivanti dall’appartenenza all’Unione europea».
Così il Commissario ha agito – a quanto risulta – omettendo un serio confronto pubblico con altre soluzioni che non fossero l’abbattimento del ponte e il rifacimento secondo il progetto dell’architetto Renzo Piano, affidato sin dall’inizio a determinate imprese.
La giusta urgenza di ricostruire ha messo a tacere qualsiasi discussione.
La struttura commissariale, ad esempio, avrebbe potuto studiare le alternative e confrontarsi con i tecnici che le avevano proposte. Al contrario, pare che non siano stati valutati i progetti presentati da importanti aziende e progettisti di fama nell’ambito delle manifestazioni di interesse, pur sollecitate dal commissario, perché difformi dall’idea iniziale della semplice demolizione dell’infrastruttura e ricostruzione in loco. D’altronde le istituzioni avevano già deciso, all’indomani della tragedia e ancora prima di intraprendere la procedura negoziata senza previa pubblicazione, prevista dall’articolo 32 della Direttiva 2014/24/UE, come detto, anche chi avrebbe realizzato la progettazione, la demolizione e la ricostruzione dell’opera, con anticipazioni finanche improprie, ma che il momento storico ha, in qualche maniera, sterilizzato.
A mio parere, la riforma annunciata (nuovamente e ancora) del Codice degli Appalti non può tener conto del “caso” Genova, del tutto straordinario e non replicabile.
Non bisogna far diventare la fretta e i Commissariamenti la regola, perché questo confligge con la concorrenza, e quindi con la qualità, elementi che nel caso di opere infrastrutturali sono decisivi. All’Italia servono infrastrutture di altissimo livello – strade, ferrovie, porti, aeroporti, programmi contro il dissesto idrogeologico e di protezione sismica, impianti per la rivoluzione digitale, ad esempio – e vanno accolti con soddisfazione capitali privati.
Solo in pochissime occasioni è possibile considerare la realizzazione di un’opera con procedure extra ordinem, come nel caso di Genova, con un Commissario unico, poteri straordinari e trattative private senza concorrenza sia sul progetto, sia sull’opera, modello che cozza, però, con i generali principi comunitari oltre che di rango costituzionale.
Meglio, piuttosto, che le opere veramente strategiche per il Paese siano fissate in legge (la grande occasione è il programma per il Recovery Fund), come quando si stabilirono le priorità con la c.d. Legge Obiettivo (443/2001 e s.m.i.) con percorsi amministrativi accelerati, ma non monchi.
Quello cui deve puntare la riforma in questo settore decisivo è una programmazione seria e una progettazione tempestiva dei lavori pubblici; l’utilizzo dei concorsi di progettazione si possono fare, come avviene in tutta Europa; la definizione di un nuovo Codice degli Appalti chiaro e ridotto alle Direttive UE (oggi il Codice ha 220 articoli che generano un’infinita possibilità d’interpretazioni, senza contare la c.d. soft law emanata dall’ANAC), che definisca un quadro semplice di regole da rispettare.
Ancor di più, nell’ottica di attrarre investimenti privati, va incentivato e migliorato il partenariato pubblico/privato, nelle varie forme già previste, che potrebbe trovare linfa nel rinnovato, e speriamo non solo momentaneo, interesse dei Fondi Globali per il Paese. Essi però vanno coinvolti da un Sistema che garantisca non solo velocità, ma anche qualità e trasparenza delle scelte, presupposto ineludibile del ritorno economico, che poi è la stessa ragion d’essere degli investimenti privati.