La perfezione tecnica non avrà mai in sé il valore umano della riflessione che solo un giudice, o un avvocato in carne e ossa, sono capaci di esprimere
Uno dei temi più importanti, e certamente di maggior interesse che attualmente occupano il dibattito pubblico, è quello dell’intelligenza artificiale (acronimo in inglese e uso comune A.I.) e delle possibili implicazioni sulla vita di ognuno di noi. È già iniziata da anni una rivoluzione per l’umanità, i cui effetti sono però ancora non del tutto percepibili dalla popolazione.
Sul tema si sono alternate da decenni profonde analisi di scienziati, politici, sociologi, e certo non è questo lo spazio per affrontare alcuno dei settori in cui l’A.I. sta portando cambiamenti epocali.
Preoccupa che queste tecnologie siano in mano per lo più a poche società private e questo impone necessità di intervenire sul piano legislativo sovranazionale, visto che essa è stata già utilizzata nelle sue forme deteriori, quale strumento di disinformazione a discapito della democrazia, come anni fa mostrò lo scandalo di Cambridge Analytica.
È possibile, nel breve spazio di questa rubrica, e per i temi che essa usualmente affronta, solo accennare al rapporto delicato tra intelligenza artificiale, diritto e processo. Intanto non è un tema certo nuovo. È almeno mezzo secolo che eminenti studiosi, specie d’Oltreoceano, s’interrogano su come cambierà il rapporto con la giustizia, attraverso l’uso della A.I.. Uno dei capitoli più studiati è quello dell’applicazione di sistemi algoritmici alla giustizia. Considerazioni in parte analoghe possono essere fatte per la decisione amministrativa ed è un tema di cui, pur se limitatamente ad uno specifico caso, si è già occupato da tempo il Consiglio di Stato con la sentenza VI sez. n. 2270/2019 che ebbe a ritenere possibile tale applicazione solo per le attività c.d. vincolate. Ma gli anni passano veloci e in questi settori ci sono cambiamenti epocali in pochi mesi che ci sopravanzano al punto da rimeditare qualsiasi decisione.
Difficile quindi fissare dei punti fermi, ma ci si prova.
La utilità della decisione giudiziaria “robotica” o “algoritmica” viene accettata soprattutto nel senso della rapidità e della oggettività della decisione non condizionata da fattori “soggettivi”, ed emozionali, appunto quando è vincolata.
La rapidità è sicuramente un aspetto importante del giusto processo tanto che la ragionevole durata dei processi ha da tempo una rilevanza pienamente costituzionale (art. 111 Cost., art. 6 CEDU).
Ma la giustizia non è solo velocità, non meno importante sono l’effettività e la pienezza del diritto alla difesa delle parti, la qualità della decisione giurisdizionale, che deve anche guardare al futuro, mentre la decisione algoritmica (o per taluni, in senso non certo auspicabile, predittiva) è per definizione costruita sui precedenti, in un certo senso è “schiacciata” sul passato. Ed invece il diritto “umano” è aperto al dinamismo, alla “invenzione” di significati nuovi, mai in passato elaborati o concepiti; alla fiducia che un’opinione isolata, perché non ancora giunta a maturazione, possa diventarlo dopo qualche anno, con contesti culturali e sociali modificati. Mai, dunque, rivolta al passato, e al consolidato del pensiero giuridico che nel processo è il precedente giurisdizionale. Ma vi è di più.
Il diritto e il lessico processuale sono figli dell’esperienza umana, dell’evolversi della Società. Davanti al tribunale risulta difficile immaginare che il tutto possa esaurirsi in una dimensione puramente logica attraverso le regole tecniche.
Il rischio di un ingessamento è notevole, per la natura della dimensione giuridica. Già nei processi civili e amministrativi si è imposto il massimo di lunghezza dei testi, come pure è “punito” ciò che non sia conforme ai precedenti, specie davanti al Giudice di legittimità. Nei sistemi giurisdizionali come quello tributario, addirittura l’idea di un ricorso “per moduli”, secondo i dettami dell’amministrazione finanziaria, è una proposta concreta. Lo spazio difensivo dell’avvocato, e dunque del cittadino, già si va riducendo. Per questo, tale tendenza va contrastata da subito dagli avvocati che poi sono i rappresentanti dei cittadini, perché non si schematizzi l’azione al Giudice. La soluzione algoritmica o robotica per cui il ricorso deve essere “incasellato” e la decisione “prevedibile”, vuol dire la morte dello spirito che deve governare i processi. L’A.I. può portare ad una soluzione tecnicamente corretta, come detto, ma non potrà cogliere le sfumature del caso concreto e le dinamiche degli interessi in gioco che non possono essere sempre preconfezionate e che hanno a che fare con l’animo umano. L’intelligenza artificiale potrà riprodurre alcuni meccanismi intellettuali, può rifarsi ai precedenti, può immaginare dei sillogismi, ma non potrà mai racchiudere tutta l’esperienza umana, alla base degli interessi concreti delle parti, che si sostanzia nei valori della giustizia in un contesto mutevole per definizione, soggetto alle varie trasformazioni della società e anche soprattutto alla natura dell’uomo e al caso concreto.
Una giustizia, anche tecnicamente prevedibile e addirittura tecnicamente perfetta, non è giustizia in senso pieno, perché lontana da quella che è l’umanità del giudice e dell’avvocato e, dunque, del cittadino.
L’Uomo, in conclusione, sia ancora al centro.