Molti termini ed espressioni della nostra lingua – di cui si è fatto un uso eccessivo e talvolta inconsapevole – hanno segnato il passo, sintomo evidente del ritardo complessivo dell’Italia che – oltre ad aggiornare il vocabolario – dovrebbe, forse cambiare i suoi modelli culturali e di business
É di questi giorni la notizia che l’edizione 2014 di un noto vocabolario italiano ha inserito 1500 nuove parole, includendo anche neologismi e parole derivate dal web, nonché qualche parola inglese ormai di uso corrente.
É un lodevole realismo che prende atto e riconosce che gli italiani usano l’ “hashtag”, il simbolo “cancelletto” che, su Twitter, posto prima di una parola la fa diventare una chiave di ricerca di quell’argomento, e bevono uno “shortino”, una piccola dose di bevanda molto alcolica da bere tutta d’un fiato.
La lingua di una nazione è un organismo vivo e in continua evoluzione, che rispecchia anche il modo di essere e di pensare di un Paese. Le nuove parole e i nuovi modi di dire sono figli della nostra società e del nostro modo di confrontarci di fronte a cambiamenti planetari.
In questo contesto l’Italia sembra davvero in difficoltà, non solo e non tanto economica, visto che il Centro Studi di Confindustria ci dice che ci sono timidi segnali di ripresa, quanto piuttosto di atteggiamento, almeno per quanto riguarda l’attività delle aziende italiane in Africa, Mediterraneo e Medio Oriente. E la nostra amatissima lingua lo rispecchia in pieno.
In un tripudio di “copia e incolla” si continua a parlare, almeno per quanto riguarda queste aree, di “nuovi mercati“, di “sfide” e di opportunità.
Il punto è che l’Africa non è affatto una sfida, bensì una precisa strategia imprenditoriale. E quindi per l’industria italiana il continente africano non può essere “strategico”, espressione anche questa gettonatissima nel meraviglioso mondo del copia-e-incolla. Strategico significa infatti “relativo ad una strategia”: se non abbiamo una strategia politica e industriale al riguardo, non possono quindi esserci fattori relativi ad essa, cioè strategici.
E non ci piace neanche l’invito alle imprese a fare “ricerca e innovazione”, ormai diventato un ritornello insistente. Non si vuole certo negare l’importanza della ricerca e della innovazione per la crescita economica di un Paese: ma i tempi di ritorno per una impresa, specie piccola e media, per la ricerca di base sono lunghissimi. Preferiamo quindi chi, come Mariana Mazzucato, economista italiana di nascita e inglese di adozione, sottolineando come una enorme quantità di investimenti pubblici (e non privati) sia stata il motore delle aziende che hanno mondialmente realizzato i prodotti più innovativi, preferisce parlare non di innovazione e ricerca ma di “conoscenza”. E di quella le PMI italiane sono assolutamente da Premio Nobel, come è noto.
Non ci piace neanche continuare a parlare di “sfida”, che secondo Wikipedia, è un “invito formale a battersi in un duello o a misurarsi in una qualsiasi competizione”. Una sfida nei confronti di chi? L’Europa, e quindi anche l’Italia, è alle prese con corposi problemi interni, sia economici che di stabilità politica per alcuni Paesi. E così resta indietro rispetto alle variegate strategie politiche (questa volta sì che il termine è corretto) giapponesi, cinesi e americane. Queste spaziano dai grandi congressi bilaterali con l’Africa, come la TICAD V giapponese, che sotto il cappello di un incontro internazionale eroga poi fondi, alle politiche commerciali cinesi, spesso basate su scambi del tipo materie-prime contro infrastrutture, portando però materiali, manodopera e cibo cinese. O ancora il piano di 7 miliardi di dollari del Presidente Obama per facilitare l’accesso all’energia elettrica nell’Africa subsahariana nei prossimi cinque anni o la strategia diplomatica del Re del Marocco, vero Ambasciatore delle politiche commerciali del suo Paese, che ha scelto di puntare sull’Africa subsahariana, dopo aver soppesato il declino socio-economico dell’Europa.
Rispetto a queste politiche il nostro povero “Sistema-Paese” (ambiziosa espressione che casomai doveste tradurla in inglese o in francese vi farà scoprire la difficoltà di farlo comprendere a qualcuno che non è italiano) è sicuramente svantaggiato.
L’Africa infatti, per gran parte delle imprese italiane, continua a evocare per lo più “aiuto umanitario e instabilità politica”. Dimenticando che anche il Nord Mediterraneo, dalla Spagna alla Grecia all’Italia, vive le sue tempeste politiche ed economiche, mentre fiumi di inchiostro sono stati versati sulla “Primavera araba”, tramontata perché sarebbe ormai tradita dagli autunni arabi. E così si liquida con metafore “di stagione” un processo ancora in divenire, perché legato al grandissimo problema di dare occupazione a popolazioni giovani, che condividiamo in pieno, visto il tasso italiano di disoccupazione giovanile del 39.5% a luglio 2013, secondo i dati provvisori ISTAT.
Né ci piace parlare di opportunità e nuovi mercati: in Africa la classe media è in espansione, si sta ampliando anche la frontiera del lusso e aumentano i milionari. Da Zegna alla Porsche, gli showroom si moltiplicano. Certo, non tutti i Paesi sono allineati in questo processo di crescita economica: ma in Africa le economie sono in crescita e anche i Paesi in ritardo si stanno dando visione, politiche di sviluppo e di attrazione degli investimenti. Difatti i loro Governi vengono alle Country Presentation e aprono gli interventi spesso dicendo, con garbo e sensibilità diversi, “conosciamo le difficoltà dell’Italia. Ma siamo molto interessati al vostro modello delle PMI”.
A proposito: la parola che ci piace di meno è internazionalizzazione. Non esiste un termine inglese e francese che la traduca appieno. Occorre usare una lunga perifrasi per esprimerla: segno di una lingua in ritardo o di un Paese che deve cambiare i suoi modelli culturali e di business?