Puntare sulle filiere strategiche – agroindustria, farmaceutica, aerospazio – dando vita a nuove politiche industriali utili per il Mezzogiorno, ma indispensabili per rafforzare l’intero sistema produttivo nazionale ed europeo
Dopo la vigorosa ripresa post-pandemia, che ha visto il nostro Mezzogiorno tornare a crescere di quasi un punto percentuale sopra la media del Centro-Nord grazie a investimenti pubblici, al contributo dell’imprenditoria privata – sia nel turismo, che ha raggiunto i 25 miliardi di indotto e valore aggiunto facendo registrare il 26,4% dell’occupazione turistica nazionale e il 31% delle imprese (cfr. dati SRM, luglio 2024), sia nel manifatturiero con l’export di beni a quota 68 miliardi di euro, circa l’11% dell’export italiano, e con una crescita del 2,9%, superiore a quella nazionale (cfr. dati SACE).
Ora però le prospettive economiche per il Sud e non solo stanno rapidamente diventando nebulose. Dopo Banca d’Italia, Fmi, Confindustria e Ocse, nei giorni scorsi anche l’Istat ha certificato che nel 2024 il Pil italiano crescerà solo dello 0,5%, dimezzando così le previsioni del Governo che volevano un incremento dell’1%.
Il Mezzogiorno ha dato concreta prova di slancio nel post-covid grazie anche all’ intervento del PNRR tanto da far stimare alla Svimez – l’Associazione per lo Sviluppo del Mezzogiorno, il cui ultimo Rapporto commentiamo di seguito – che nel triennio 2024-2026, al Sud gli investimenti del PNRR valgono 1,8% di Pil meridionale. Se si investe, dunque, il Sud reagisce, mostra vitalità ma – se non si prosegue con il processo di investimenti per ricompattarne le frammentazioni interne – esattamente alla stregua del resto del Paese rischia già domani di vegetare, complici soprattutto la denatalità, il costante invecchiamento della popolazione e l’emigrazione giovanile qualificata. Il 58esimo Rapporto del Censis, reso noto a inizio dicembre, parla addirittura di «sindrome italiana». Se l’anno scorso eravamo un popolo di sonnambuli, quest’anno restiamo in superficie. Il Paese galleggia perché languono reali possibilità di mobilità, di cambiamento, di ascesa sociale. L’Italia resta così invischiata nelle mancate scelte e, ripiegata su di sé, non avanza e non sprofonda. Intanto, lavoro precario e bassi salari, spingono i giovani ad andare via. Al 2050, il Paese perderà 4,5 milioni di abitanti e l’82% della perdita interesserà le regioni meridionali: -3,6 milioni. Non solo spopolamento, ma un progressivo degiovanimento che colpirà soprattutto il Mezzogiorno, che perderà 813mila under 15, quasi un terzo di quelli attuali (-32,1%), mentre gli anziani con più di 65 anni aumenteranno di 1,3 milioni (+29%).
Come si inverte dunque la rotta? Come ci si attrezza per non restare ai margini dello scacchiere competitivo mentre continuiamo a perdere pezzi di futuro?
La Svimez lo ribadisce da anni: il Mezzogiorno non è né un vuoto a perdere, né un deserto industriale. Per contributo a valore aggiunto e occupazione, in termini di internazionalizzazione, competenze e tecnologia, il peso del Sud è determinate in diverse filiere nazionali: Agroindustria, Navale e Cantieristica, Aerospazio, Edilizia e Automotive, comparto che al Sud tra diretti e indiretti, impiega 45mila lavoratori. Superando concezioni passatiste, è tempo dunque che il Sud diventi nevralgico per riconnettere il Paese tutto, grazie alla sua natura di crocevia tra Asia, Africa ed Europa. Oltre il 30% della filiera agroalimentare e il 26% di quella legata all’energia – solo per citarne due – insiste al Mezzogiorno. Ed è proprio su queste filiere che bisogna puntare, dando vita a nuove politiche industriali utili per il Sud, ma indispensabili per rafforzare l’intero sistema produttivo nazionale ed europeo.