In commento due sentenze che appaiono molto rigorose e suscettibili di essere recepite dall’Agenzia delle Entrate
Due recenti sentenze della Corte di Giustizia UE hanno trattato della sorte dell’IVA a credito nel caso di cessazione della società e in quello di concorso implicito in una frode fiscale.
In entrambe le fattispecie esaminate, purtroppo, l’approccio è stato estremamente rigoroso.
Nello specifico, la sentenza n. 293/2 del 6 ottobre 2022 ha esaminato il diritto alla detrazione dell’IVA in caso di messa in liquidazione del soggetto passivo, con successiva cancellazione di quest’ultimo dal registro dei soggetti IVA.
A tal proposito, si ricorda che la normativa europea in materia di detrazione IVA in generale riconduce agli articoli 167 e 168 della Direttiva IVA, che consentono la possibilità di detrarre l’iva solo quando l’imposta detraibile diventa esigibile, nella misura in cui i beni e i servizi, cui l’imposta fa riferimento, siano effettivamente impiegati.
Nella fattispecie in esame, una società lituana di ricerche aveva acquistato beni per un progetto internazionale per la creazione di un prototipo di apparecchio medico. Terminato il progetto, la società, viste le perdite di esercizio e l’assenza di ordinativi, venne messa in liquidazione e cancellata. A quel punto l’Autorità Fiscale contestò la mancata rettifica della detrazione dell’IVA relativa ai beni acquistati, che non sarebbero stati più utilizzati per attività soggette all’IVA, a causa appunto dell’avvenuta cancellazione della società. Questa contestazione, dopo una serie di ricorsi, ha portato, in ultimo, alla citata pronuncia della Corte di Giustizia.
Tale pronuncia, aderendo alla contestazione dell’Autorità Fiscale, ha stabilito l’obbligo per la società di rettificare la detrazione dell’IVA relativa ai beni d’investimento acquisiti, in quanto – prima della sua cancellazione, per scelta aziendale, dai soggetti passivi IVA – tali beni non erano mai stati utilizzati, nell’ambito di attività economiche soggette ad imposta.
Questa decisione appare molto penalizzante e foriera di conseguenze negative, in quanto sembra introdurre, ai fini della detrazione IVA sugli investimenti, una precondizione rappresentata dall’effettivo successivo realizzo di attività imponibili, istituendo quindi una sorta di detrazione sub judice, temporanea.
Tra l’altro, ove ciò fosse, le usuali analisi sui progetti di investimento per l’avvio di una nuova attività d’impresa, dovrebbero contemplare tra i worst case (quali appunto l’abbandono dell’intero progetto), anche gli eventuali deficit finanziari derivanti dall’impossibilità di recuperare l’IVA assolta sull’acquisto di beni strumentali.
A parziale riparo da questi effetti, occorre ricordare che nell’ambito della nostra legislazione, in linea di principio, la sentenza in questione non dovrebbe determinare un vulnus al diritto di detrazione IVA, che dovrebbe rimanere immutato, anche qualora, successivamente, l’attività economica prevista non venga realizzata e quindi non vi siano operazioni attive imponibili.
Ciò sarebbe confermato anche dall’Agenzia delle Entrate, che per l’IVA assolta sui beni ammortizzabili, ha precisato che la detrazione può essere esercitata in via immediata, sulla base di una sorta di previsione della futura destinazione dei beni acquistati alla realizzazione di operazioni imponibili.
Si ritiene, tuttavia, che il riferimento alla previsione sulla destinazione futura dei beni, abbia in sé delle insidie. Infatti, se è chiaro che, nel caso di cambio di destinazione dei beni verso attività esenti o similari, si applicherebbero le norme, che governano le varie ipotesi di successiva rettifica della detrazione dell’IVA assolta (articoli 19bis, bis1- bis2), non appaiono invece definiti con ugual chiarezza, gli effetti sulla detrazione effettuata, nel caso di beni a destinazione “cessata” dove addirittura la società si estingua.
Ciò porta al timore che, proprio in forza della sentenza analizzata, eventuali casi di abbandono di progetti possano indurre l’Agenzia delle Entrate ad adottare la stessa linea, negando in via sopravvenuta – per i soli beni ammortizzabili – il diritto alla detrazione, in quanto non più collegato a un esercizio d’impresa (art.19).
Questa denegata estensione interpretativa darebbe agio alle Entrate di analizzare la sussistenza o meno del rapporto tra detrazione a monte e imponibilità a valle per ogni circostanza in cui gli investimenti effettuati non trovino mai una loro destinazione “imponibile” (fosse anche sotto forma di rivendita o dismissione a terzi).
Si pensi alle progettazioni di opere che vengano poi abbandonate, oppure a programmi d’investimento subordinati ad autorizzazioni rinunciate e a ogni attività preparatoria di ricavi non più finalizzata (start-up).
In tali circostanze, laddove l’Agenzia riuscisse a dimostrare l’inesistenza del rapporto detrazione – imponibilità, è probabile che venga contestata la indetraibilità dell’IVA (rectius: il diritto al rimborso dell’IVA a credito).
La seconda sentenza n. 596/21 del 24 novembre 2022 si inserisce invece nel filone dell’indetraibilità dell’IVA nell’ambito delle frodi fiscali lungo la catena di produzione-distribuzione di beni. Il caso specifico riguardava la vendita di un’autovettura da un concessionario tedesco a un intermediario e la successiva rivendita del bene da questi al cliente finale, in cui era stata accertata la frode da parte del concessionario nel suo rapporto con l’intermediario e in questa frode era stato inserito anche il cliente finale, sulla base del ben noto criterio del “non poteva non sapere”.
La Corte “naturalmente” ha confermato la tesi dell’Ufficio Fiscale, ribadendo, in buona sostanza, che il cliente non poteva non sapere che stesse acquistando da un soggetto diverso dal concessionario e quindi non poteva non supporre la frode sottostante.
La sentenza ha una sua valenza perché consolida un orientamento rigoroso dei giudici, in merito alla capacità del cliente finale di percepire frodi sorte ai livelli antecedenti l’ultima transazione e oggettivamente, nella fattispecie in esame, sembra difficile sostenere una ipotesi opposta.
Tuttavia, essa è molto insidiosa, perché potrebbe aumentare le possibilità dell’Agenzia delle Entrate di contestare la frode fiscale (compiuta in qualunque fase del canale di produzione – distribuzione – vendita) anche al cliente finale in regime IVA, basandosi solo sul mero e incerto principio del “non poteva non sapere”.
In buona sostanza, con questa decisione sembra rafforzarsi l’inversione sul contribuente dell’onere della prova, che, dato il tipo di motivazione usata, assumerebbe la diabolica natura di prova negativa: dimostrare di non sapere della frode.
Queste due sentenze, come detto all’inizio, appaiono molto rigorose e suscettibili di essere recepite dalla nostra Agenzia delle Entrate.
La speranza è che non prevalga la foga antievasione ma l’approccio di buon senso.