La società cambia, i corpi intermedi latitano e la giustizia è chiamata, specie negli ultimi decenni, a un ruolo di mediazione sociale e interindividuale che non le è proprio. Vanno rafforzati, pertanto, i sistemi di ADR in una prospettiva non più meramente deflattiva del «contenzioso in esubero»
«Il Paese dove tutto finisce in tribunale» è il titolo di un recente articolo apparso sul Corriere della Sera, a firma di Pierluigi Battista, dal quale traspare nitida la fotografia di un’Italia in cui, a fronte di un sistema di giustizia inefficiente, la litigiosità diffusa sfocia quasi ineluttabilmente nella richiesta dell’intervento del giudice su tutto.
La «giuridicizzazione» del vivere civile, nello scenario impietosamente delineato nell’articolo di Battista, viene tratteggiata quale effetto di questa contraddittoria situazione e ne diviene poi causa, in un circuito chiuso, nel quale la realtà è destinata a ripetersi in maniera sempre uguale per una palese incapacità di modificarne le dinamiche sociali quasi fossero le uniche possibili. «Cani che abbaiano, panni stesi, merende, bocciature scolastiche».
Inezie, ma non solo. Un quadro, quello disegnato nell’articolo, nel quale si evidenzia l’assenza dei corpi intermedi e infatti – come scrive Battista – sono scomparsi gli organi della «mediazione», lasciando il singolo «con l’unica «mediazione» oggi chiamata a decidere: la giustizia». In sintesi, la giustizia è stata chiamata soprattutto negli ultimi decenni a un ruolo di mediazione sociale e interindividuale che non le è proprio.
La giustizia – intesa quale giurisdizione dello Stato – ha dovuto svolgere un ruolo di supplenza a causa delle profonde e rapide trasformazioni sociali tentando di creare quel tessuto necessario alla pacifica convivenza civile. Ma l’attività giurisdizionale, cioè quella attraverso la quale si decide imponendo alle parti una soluzione eteronoma in base alla legge, è destinata a recidere i rapporti e non certo a creare quel cemento sociale necessario alla migliore convivenza dei cittadini. Soluzione necessaria, indispensabile, ma alla quale occorrerebbe ricorrere soltanto quale extrema ratio in quanto, anche solo il ricorso alla sede giudiziaria, denota l’incapacità dei consociati di trovare percorsi compositivi utili alla soluzione del conflitto. E denota altresì la difficoltà di un Paese nel rendere disponibili e facilmente accessibili strumenti e itinerari che meglio possano rispondere alle esigenze sociali aiutando i consociati a ricercare soluzioni in grado di creare coesione e non divisione. La decisione del giudice, infatti, anche quando è resa tempestivamente, pone fine alla controversia ma certifica la permanenza di un conflitto latente che si perpetua per generazioni e che troverà presto o tardi nuove occasioni per riemergere ed esplodere in forme ancora più virulente.
Appare quindi indispensabile che la riforma della giustizia non si ponga quale unico obiettivo il miglioramento del processo e dell’organizzazione dell’apparato giudiziario. L’efficienza e la qualità del processo appaiono, infatti, quali condizioni imprescindibili per assicurare la tutela dei diritti. Ma la tutela dei diritti deve costituire l’argine sociale della convivenza civile e occorre perciò apprestare tutti questi meccanismi intermedi nei quali i conflitti tra i consociati possano trovare percorsi più o meno strutturati utili a ricucire e non a recidere il tessuto sociale. Così anche l’introduzione di nuovi sistemi di risoluzione stragiudiziale delle liti civili e commerciali, per lo più inizialmente intesi quali procedimenti di mera deflazione, acquistano una nuova prospettiva che non può essere così relegata ad esigenze meramente emergenziali e contingenti.
In questo contesto, le proposte per la riforma organica dei sistemi di ADR (alternative dispute resolution) – definiti anche «strumenti di degiurisdizionalizzazione» – sono sul tavolo del ministro Orlando che, di recente, nel presentare i dati della giustizia civile a un convegno milanese, ha dichiarato che la migliorata efficienza del sistema e la riduzione del carico dei tribunali sono dovute ad una serie di fattori, primo tra tutti l’utilizzo dei procedimenti di ADR. La Commissione istituita nel marzo 2016 e presieduta dal professor Guido Alpa ha completato i suoi lavori redigendo un ampio e articolato progetto che contiene anche la puntuale proposta legislativa che focalizza la sua attenzione sull’arbitrato e sulla mediazione, senza tralasciare la negoziazione assistita, con attenzione anche alla volontaria giurisdizione. Dalla lettura della relazione illustrativa, che precede l’articolato normativo, emerge con chiarezza come un «particolare rilievo» sia stato riservato alla disciplina in materia di mediazione delle liti civili e commerciali.
Numerosi sono stati i materiali raccolti e ampia è stata la consultazione tanto che alla Commissione «si è aperto un mondo di esperienze» che va ben oltre i meri dati statistici, un mondo che «fino ad oggi non era stato percepito in tutta la sua estensione e complessità». In sintesi questa raccolta di informazioni e di esperienze ha indotto i commissari «a rivedere la convinzione che la mentalità diffusa di privati, professionisti e imprese, non sia sensibile, non abbia sviluppato una empatia, per la mediazione». Come anche che si sia registrata da parte delle categorie professionali interessate, «una notevole apertura non solo alla mediazione volontaria, ma anche alla mediazione obbligatoria», con specifico riferimento poi agli esiti del Congresso nazionale forense di Rimini ove gli ADR sono stati considerati «veri e propri complementi alla giustizia ordinaria». Un passaggio fondamentale, tuttora in atto e quindi non pienamente compiuto, ma sicuramente in fase avanzata e non reversibile. Una svolta normativa e culturale della quale la Commissione ha dovuto prendere atto formulando proposte in grado di rafforzare la mediazione in una prospettiva non più meramente deflattiva del «contenzioso in esubero» e ancillare al processo giurisdizionale.
E la riforma proposta in materia di mediazione – che opportunamente introduce in maniera esplicita l’obbligo per le parti di comportarsi secondo buona fede e con spirito di cooperazione – è incardinata sull’estensione della obbligatorietà fondata su diverse basi culturali. Porre la mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale solo apparentemente infatti confligge con l’autonomia che connota il percorso negoziale e che costituisce atto di autonomia e, quindi, di libertà delle parti. Infatti, come si legge nella relazione, l’obbligatorietà ha consentito di diffondere la «cultura della conciliazione», rilevando che «prima non vi era, effettiva libertà perché il cittadino era di fatto costretto ad adire il giudice rispetto alla via mediativa».Una obbligatorietà, quindi, «in chiave promozionale» per un metodo di risoluzione delle controversie che mira non solo e non tanto a incrementare il suo utilizzo, in quanto ha di mira l’interesse generale.
La prospettiva dunque si capovolge e la proposta di allargamento delle materie e di estensione temporale appaiano consequenziali sia pure per taluni profili inappaganti. Traspare con evidenza come la spinta culturale propulsiva trovi tuttora taluni dubbi e resistenze, ma d’altro canto emerge forte l’esigenza di un consolidamento dell’obbligo utile – se non necessario – a stabilizzare il sistema. Stabilizzazione che costituisce una pre-condizione per il definitivo salto di qualità degli organismi e per la professionalizzazione dei mediatori da tutti sempre auspicato. È il momento della riflessione politica in un contesto storico nel quale, tra spinte europee e trasformazioni culturali, l’alternativa è gestire la continua emergenza o essere visionari, immaginando e ponendo le basi per il futuro che si intende costruire.
Ed è proprio alla politica, e non ai tecnici, che viene chiesto di disegnare i contorni di un sistema della giustizia civile quale emerge dalla relazione della Commissione Alpa, ma senza i prevedibili tentativi di condizionamento determinati dai timori di accelerazioni o di resistenze marginali ad una necessaria trasformazione già in atto.