Il primo film dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo non è esagerato definirlo un piccolo capolavoro, un film che racconta come sia maledettamente facile assuefarsi al male.
I protagonisti della storia sono Mirko e Manolo, due giovani amici della periferia di Roma. Bravi ragazzi, fino al momento in cui uccidono involontariamente un uomo investendolo e scelgono la via più facile, quella della fuga e del silenzio.
La tragedia si trasforma inizialmente in un apparente colpo di fortuna: l’uomo che hanno ucciso è un pentito di un pericoloso clan criminale di zona e facendolo fuori i due ragazzi si guadagneranno un ruolo, il rispetto e il denaro che non hanno mai avuto nella loro vita.
Un biglietto d’entrata per l’inferno che scambiano per un lasciapassare verso il paradiso. I due ragazzi cominciano a corazzarsi dai sensi di colpa per quanto compiuto, accumulando ulteriore carico di disumanizzazione.
Quando, infatti, si apre lo spiraglio dell’attività criminale vedono miracolosamente concretizzarsi la pista alternativa della quale credono di avere bisogno: abituarsi al male al punto da non sentire più niente, coscienza compresa.
In un mondo in cui la sofferenza è sinonimo di debolezza, i due ragazzi si spingeranno oltre il limite della sopportazione per vedere fin dove si può fingere di non sentire nulla.
Figure essenziali dell’impianto narrativo sono quelle dei genitori dei due protagonisti, che seppur collocate agli opposti, sono entrambe vittime dell’inesorabile spirale tragica che non accenna a fermarsi: quella di un padre più immaturo dei protagonisti, che spinge il figlio su un treno che lui ha perso e che si ostina a inseguire e quella di una madre che il treno invece cerca invano di fermarlo.